Un lupo di mare di Emilio Salgari

Scritto da Amareilmare.it on . Postato in Racconti di mare

notte-buia-tempestosa-700-250


Un lupo di mare di Emilio Salgari

(1894) 


Non avete udito mai parlare di mastro Catrame? No?...

Allora vi dirò quanto so di questo marinaio d'antico stampo, che godette molta popolarità nella nostra marina: ma non troppe cose, poiché, quantunque lo abbia veduto coi miei occhi, abbia navigato molto tempo in sua compagnia e vuotato insieme con lui non poche bottiglie di quel vecchio e autentico Cipro che egli amava tanto, non ho mai saputo il suo vero nome, né in quale città o borgata della nostra penisola o delle nostre isole egli fosse nato.

Era, come dissi, un marinaio d'antico stampo, degno di figurare a fianco di quei famosi navigatori normanni che scorrazzarono per sì lunghi anni l'Atlantico, avidi di emozioni e di tempeste, che si spinsero dalle gelide coste dei mari del nord fino a quelle miti del mezzogiorno, che colonizzarono la nebbiosa Islanda e conquistarono il lontano Labrador, quattro o forse cinquecento anni prima che il nostro grande Colombo mettesse piede sulle ridenti isole del golfo messicano.

Quanti anni aveva mastro Catrame? Nessuno lo sapeva, perché tutti l'avevano conosciuto sempre vecchio. È certo però che molti giovedì dovevano pesare sul suo groppone, giacché egli aveva la barba bianca, i capelli radi, il viso rugoso, incartapecorito, cotto e ricotto dal sole, dall'aria marina e dalla salsedine. Ma non era curvo, no, quel vecchio lupo di mare!

Procedeva, è vero, di traverso come i gamberi, si dondolava tutto, anche quando il vascello era fermo e il mare perfettamente tranquillo, come se avesse indosso la tarantola, tanta era in lui l'abitudine del rollio e del beccheggio; ma camminava ritto, e quando passava dinanzi al capitano o agli ufficiali teneva alto il capo come un giovinotto, e da quegli occhietti d'un grigio ferro, che pareva fossero lì lì per chiudersi per sempre, sprizzava un bagliore come di lampo. Ma che orsaccio era quel mastro Catrame! Ruvido come un guanto di ferro, brutale talvolta, quantunque in fondo non fosse cattivo: poi superstizioso come tutti i vecchi marinai, e credeva ai vascelli fantasmi, alle sirene, agli spiriti marini, ai folletti, ed era avarissimo di parole. Pareva che faticasse a far udire la sua voce, si spiegava quasi sempre a monosillabi e a cenni, non amava perciò la compagnia e preferiva vivere in fondo alla tenebrosa cala, dalla quale non usciva che a malincuore. Si sarebbe detto che la luce del sole gli faceva male e che non poteva vivere lontano dall'odore acuto del catrame, e forse per questo gli avevano imposto quel nomignolo, che poi doveva, col tempo, diventare il suo vero nome.

Chi aveva mai veduto quell'uomo scendere in un porto? Nessuno senza dubbio. Aveva un terrore istintivo per la terra, e quando la nave si avvicinava alla spiaggia, lo si vedeva accigliato, lo si udiva brontolare, e poi spariva e andava a rintanarsi in fondo del legno. Di là nessuno poteva trarlo; guai anzi a provarsi! Mastro Catrame montava allora in bestia, alzava le braccia e quelle manacce callose, incatramate, dure come il ferro e irte di nodi, piombavano con sordo scricchiolio sulle spalle dell'imprudente, e i mozzi di bordo sapevano se pesavano!

Per tutto il tempo che la nave rimaneva in porto, mastro Catrame non compariva più in coperta. Accovacciato in fondo alla cala, passava il tempo a sgretolare biscotti con quei suoi denti lunghi e gialli, ma solidi quanto quelli del cignale, a tracannare con visibile soddisfazione un buon numero di bottiglie di vecchio Cipro, alle quali spezzava il collo per far più presto, e a consumare non so quanti pacchetti di tabacco.

Quando però udiva le catene contorcersi nelle cubìe e attorno all'argano, e lo sbattere delle vele e il cigolare delle manovre correnti entro i rugosi boscelli, si vedeva la sua testaccia apparire a poco a poco a fior del boccaporto e, dopo essersi assicurato che la nave stava per ritornare in alto mare, compariva in coperta a comandare la manovra.

Sembrava allora un altro uomo, tanto che si sarebbe detto che invecchiava di mano in mano che si avvicinava alla terra e che ringiovaniva di mano in mano che se ne allontanava per tornare sul mare. Forse per questo si sussurrava fra i giovani marinai che egli fosse uno spirito del mare e che doveva esser nato durante una notte tempestosa da un tritone e da una sirena, poiché quello strano vecchio pareva si divertisse quando imperversavano gli uragani, e dimostrava una gioia maligna che sempre più cresceva, allora che più impallidivano dallo spavento i volti dei suoi compagni di viaggio.

Da che cosa provenisse quell'odio profondo che mastro Catrame nutriva per la terra? Nessuno lo sapeva, e io non più degli altri, quantunque mi fossi più volte provato ad interrogarlo. Egli si era contentato di guardarmi fisso fisso e di voltarmi bruscamente le spalle, dopo però avermi fatto il saluto d'obbligo, poiché mastro Catrame era un rigido osservatore della disciplina di bordo.

Del resto tutti lo lasciavano in pace, mai lo interrogavano, poiché lo temevano e sapevano per esperienza che aveva la mano sempre pronta ad appioppare un sonoro scapaccione, malgrado l'età, e qualche volta anche faceva provare la punta del suo stivale. Gli uni lo rispettavano per l'età, gli altri per paura.

Lo stesso capitano lo lasciava fare quello che voleva, sapendo che in fatto di abilità marinaresca non aveva l'eguale, che poteva contare su di lui come su d'un cane affezionato, sebbene ringhioso, e che valeva a far stare a dovere l'equipaggio anche con una sola occhiata, né mancava mai al suo servizio.

Una sera però, mentre dai porti del Mar Rosso navigavamo verso i mari dell'India, mastro Catrame, contrariamente al solito, commise una mancanza che fece epoca a bordo del nostro veliero: fu trovato nientemeno che ubriaco fradicio in fondo alla cala!... Come mai quell'orso, che da tanti anni aveva dato un addio ai forti liquori che tanto piacciono ai marinai e che mai una volta si era veduto barcollare pel soverchio bere, si era ubriacato? Il caso era grave; ci doveva entrare qualche gran motivo, e il nostro capitano, che voleva veder chiaro in tutto, ordinò un'inchiesta, su per giù come fanno le nostre autorità quando accade qualche grosso avvenimento.

E la nostra inchiesta approdò a buon porto, poiché si constatò con tutta precisione che mastro Catrame si era ubriacato per errore! Qualche burlone aveva mescolato fra le bottiglie di Cipro una di rhum più o meno autentico, e il vecchio lupo l'aveva tracannata tutta senza nemmeno accorgersi della sostituzione.

Un mastro che si ubriaca durante la navigazione non la può passar liscia, e tanto meno doveva passarla mastro Catrame, che era così rigido osservatore delle discipline marinaresche. Quale brutto esempio, se lo si fosse graziato!

Il capitano con tutta serietà ordinò che si portasse il colpevole sul ponte appena l'ebrezza fosse passata, e avvertì l'equipaggio di tenersi pronto per un consiglio straordinario. Dopo due ore mastro Catrame, ancora stordito da quella abbondante libazione, che avrebbe potuto riuscire fatale a uno stomaco meno corazzato, compariva in coperta torvo, accigliato, coi peli del volto irti. I suoi occhietti correvano dall'uno all'altro marinaio, come se volessero scoprire il colpevole di quella brutta gherminella.

Il capitano, appena lo vide, gli andò incontro, lo prese ruvidamente per un braccio e lo fece sedere su di un barile che era stato collocato ai piedi dell'albero maestro. Con un cenno fece radunare attorno al colpevole l'equipaggio, poi, affettando una gran collera che non provava e facendo la voce grossa per darsi maggior importanza, disse:

- Papà Catrame, - lo chiamava così, - sapete che i regolamenti di bordo condannano il marinaio che si ubriaca durante il servizio?

Il lupo di mare fece un cenno affermativo e barbugliò un “fate”.

- Quest'uomo è colpevole? - chiese il capitano, volgendosi verso l'equipaggio, che rideva sotto i baffi, sapendo già come doveva finire quella commedia.

- Sì, sì, - confermarono tutti.

- Se tu fossi più giovane, ti farei chiudere nella cabina coi ferri alle mani e ai piedi; ma sei troppo vecchio. Ebbene, io cambio la pena condannandoti a sciogliere quella lingua, che è sempre muta, per dodici sere.

- Orsù, papà Catrame, taglia i gherlini che la tengono legata, accendi la tua pipa e narraci dodici storie, le più belle che sai - e ne devi sapere, veh! - e tu, dispensiere, reca una bottiglia del più vecchio vino di Cipro che troverai nella mia cabina, onde la lingua del vecchio orso non si secchi. Avete capito?

Una salva d'applausi accolse le parole del capitano, a cui fece eco un sordo grugnito di mastro Catrame, non so poi se di contentezza per essere sfuggito ai ferri o di malcontento per dover sciogliere la lingua.

(dalla raccolta "Le novelle marinaresche di mastro Catrame", di Emilio Salgari, 1894)


{loadnavigation}









La Sirenetta di Hans Christian Andersen

Scritto da Amareilmare.it on . Postato in Racconti di mare

notte-buia-tempestosa-700-250


La Sirenetta di Hans Christian Andersen

(1836)


In mezzo al mare l'acqua è azzurra come i petali dei più bei fiordalisi e trasparente come il cristallo più puro; ma è molto profonda, così profonda che un'anfora non potrebbe raggiungere il fondo; bisognerebbe mettere molti campanili, uno sull'altro, per arrivare dal fondo fino alla superficie. Laggiù abitano le genti del mare.

Non si deve credere che ci sia solo sabbia bianca, no! Crescono alberi stranissimi, e piante con gli steli e i petali così sottili che si muovono al minimo movimento dell'acqua, come fossero esseri viventi. Tutti i pesci, grandi e piccoli, nuotano tra i rami, proprio come fanno gli uccelli nell'aria. Nel punto più profondo si trova il castello del re del mare. Le mura sono di corallo e le alte finestre ad arco sono fatte con ambra chiarissima, il tetto è formato da conchiglie che si aprono e si chiudono secondo il movimento dell'acqua; sono proprio belle, perché contengono perle meravigliose; una sola di quelle basterebbe alla corona di una regina.

Il re del mare era vedovo da molti anni, ma la sua vecchia madre governava la casa, una donna intelligente, molto orgogliosa della sua nobiltà; e per questo aveva dodici ostriche sulla coda, quando le altre persone nobili potevano averne solo sei. Comunque aveva grandi meriti, soprattutto perché voleva molto bene alle piccole principesse del mare, le sue nipotine. Erano sei graziose fanciulle, ma la più giovane era la più bella di tutte, dalla pelle chiara e delicata come un petalo di rosa, gli occhi azzurri come un lago profondo; ma come tutte le altre non aveva piedi, il corpo terminava con una coda di pesce.

Per tutto il giorno potevano giocare nel castello, nei grandi saloni, dove fiori viventi crescevano alle pareti. Le grandi finestre di ambra venivano aperte e i pesci potevano nuotare dentro, proprio come fanno le rondini quando apriamo le finestre, ma i pesci nuotavano vicino alle principessine, mangiavano dalle loro manine e si lasciavano accarezzare. Fuori dal castello vi era un grande giardino con alberi color rosso fuoco e blu scuro; i frutti brillavano come oro e i fiori come fiamme di fuoco, poiché steli e foglie si agitavano continuamente. La terra stessa era costituita da sabbia finissima, ma azzurra come lo zolfo ardente. E una strana luce azzurra avvolgeva tutto; si poteva quasi credere di trovarsi nell'aria e di vedere il cielo da ogni parte, invece di essere sul fondo del mare. Quando il mare era calmo si poteva vedere il sole: sembrava un fiore color porpora dal cui calice sgorgava tutta la luce.

Ogni principessa aveva una piccola aiuola nel giardino, in cui poteva piantare i fiori che voleva; una di loro diede alla sua aiuola la forma di una balena; un'altra preferì che assomigliasse a una sirenetta; la più giovane la fece rotonda come il sole e vi mise solo fiori rossi come lui. Era una bambina strana, molto tranquilla e pensierosa; le altre sorelle decorarono le aiuole con le cose più bizzarre che avevano trovato tra le navi affondate, lei invece, oltre ai fiori rossi che assomigliavano al sole, volle avere solo una bella statua di marmo, raffigurante un giovane scolpito in una pietra bianca e trasparente, che era arrivata fin lì dopo qualche naufragio. Vicino alla statua piantò un salice piangente di color rossiccio, che crebbe splendidamente ripiegando i suoi freschi rami sul giovane fino a raggiungere il suolo di sabbia azzurra, dove l'ombra diventava viola e si muoveva come i rami stessi: sembrava così che i rami e le radici si baciassero con dolcezza.

Non c'era per lei gioia più grande che sentir parlare del mondo degli uomini sopra di loro; la vecchia nonna dovette raccontare tutto quanto sapeva delle navi e delle città, degli uomini e degli animali; soprattutto la colpiva in modo particolare il fatto che i fiori sulla terra profumassero (naturalmente non profumavano in fondo al mare!) e che i boschi fossero verdi e che i pesci che si vedevano tra i rami potessero cantare così bene che era un piacere ascoltarli; erano gli uccellini, ma la vecchia nonna li chiamava pesci, per farsi capire da loro che non avevano mai visto un uccello.

"Quando compirete quindici anni" disse la nonna "avrete il permesso di affacciarvi fuori dal mare, sedervi al chiaro di luna sulle rocce e osservare le grosse navi che navigano; vedrete anche i boschi e le città". L'anno dopo la sorella più grande avrebbe compiuto quindici anni, ma le altre... già, avevano tutte un anno di differenza tra loro, e la più giovane doveva aspettare cinque anni prima di poter risalire il mare e vedere come viviamo noi uomini. Tra sorelle si promisero che si sarebbero raccontate le cose più significative che avrebbero visto durante il loro primo viaggio: la nonna non raccontava abbastanza, e c'era tanto che loro volevano sapere.

Nessuno però lo voleva quanto la più giovane, proprio lei che doveva aspettare più a lungo e che era così silenziosa e pensierosa. Per molte notti restava affacciata alla finestra a guardare verso l'alto, attraverso l'acqua scura, dove i pesci muovevano le pinne e la coda. Poteva vedere la luna e le stelle, in realtà brillavano debolmente, ma attraverso l'acqua sembravano molto più grandi che ai nostri occhi; se qualcosa le oscurava, come un'ombra nera, lei sapeva che forse una balena nuotava sopra di lei, o forse era una nave con tanti uomini. Questi non immaginavano certo che una graziosa sirenetta si potesse trovare sotto di loro tendendo verso la carena della nave le sue bianche braccia.

La principessa più grande compì quindici anni e poté raggiungere la superficie del mare. Tornata a casa, aveva cento cose da raccontare, ma la cosa più bella, secondo lei, era stato stendersi al chiaro di luna su un banco di sabbia nel mare calmo e guardare verso la costa la grande città, piena di luci che brillavano come centinaia di stelle, sentire la musica e il rumore delle carrozze e degli uomini, guardare le moltissime torri e i campanili e ascoltare le campane che suonavano. Proprio perché non sarebbe mai potuta andare lassù, aveva soprattutto interesse per quei posti. Oh, con che attenzione la sorellina minore ascoltò! e quando poi a sera inoltrata andò alla finestra per guardare in alto, attraverso l'acqua scura, pensò alla grande città con tutto quel rumore, e le sembrò di sentire il suono della campana che arrivava fino a lei.

L'anno dopo la seconda sorella ebbe il permesso di risalire l'acqua e di nuotare dove voleva. Si affacciò proprio quando il sole stava tramontando, e trovò che quella vista fosse la cosa più bella. Tutto il cielo sembrava dorato, raccontò, e le nuvole sì, la loro bellezza non si poteva descrivere! rosse e viola avevano navigato sopra di lei, ma, molto più veloce delle nuvole era passato come un lungo velo bianco uno stormo di cigni selvatici, che si dirigeva verso il sole. Anche lei aveva cominciato a nuotare verso il sole, ma questo era scomparso e i riflessi rosati si erano spenti sulla superficie del mare e sulle nuvole.

L'anno successivo toccò alla terza sorella; era la più coraggiosa di tutte e risalì un largo fiume che sfociava nel mare. Vide belle colline verdi con vigneti, castelli e fattorie che spuntavano tra bellissimi boschi; sentì come cantavano gli uccelli, e il sole scaldava tanto che dovette spesso buttarsi in acqua per rinfrescare il viso infuocato. In una piccola insenatura incontrò un gruppo di bambini, che, nudi, correvano e si gettavano in acqua; volle giocare con loro, ma questi scapparono via spaventati; poi giunse un piccolo animale nero, era un cane ma lei non ne aveva mai visto uno prima, e questo cominciò a abbaiarle contro, così lei, spaventata, tornò nel mare aperto ma non poté più dimenticare quei meravigliosi boschi, quelle verdi colline, e quei graziosi bambini che sapevano nuotare, pur non avendo la coda di pesce.
La quarta sorella non fu così coraggiosa, restò in mezzo al mare aperto, e raccontò che proprio lì stava il piacere, poteva guardare per molte miglia in ogni direzione e il cielo sopra di lei le era sembrato una grossa campana di vetro. Aveva visto delle navi, ma da lontano, e le erano parse simili a gabbiani; gli allegri delfini avevano fatto le capriole e le grandi balene avevano soffiato l'acqua dalle narici, e era stato come vedere cento fontane attorno a sé.

Venne poi il turno della quinta sorella; il suo compleanno cadeva in inverno, e per questo vide cose che le altre non avevano visto. Il mare appariva verde e tutt'intorno galleggiavano grosse montagne di ghiaccio; sembravano perle, raccontò, ma erano molto più grandi dei campanili che gli uomini costruivano. Si mostravano nelle forme più svariate e brillavano come diamanti. Si era seduta su una delle più grosse e tutti i naviganti erano fuggiti spaventati dal luogo in cui lei si trovava, con il vento che le agitava i lunghi capelli; poi, verso sera, il cielo si era ricoperto di nuvole, c'erano stati lampi e tuoni, e il mare nero aveva sollevato in alto i grossi blocchi di ghiaccio illuminati da lampi infuocati. Su tutte le navi si ammainavano le vele, dominava la paura e l'angoscia, lei invece se ne stava tranquilla sulla sua montagna di ghiaccio galleggiante e guardava i fulmini azzurri colpire a zig-zag il mare illuminato.

La prima volta che le sorelle uscirono dall'acqua, restarono incantate per le cose nuove e magnifiche che avevano visto, ma ora che erano cresciute e avevano il permesso di salire quando volevano, erano diventate indifferenti, sentivano nostalgia di casa, e dopo un mese dissero che presso di loro c'erano in assoluto le cose più belle e che era molto meglio stare a casa.
Molte volte, di sera, le cinque sorelle, tenendosi sottobraccio, risalivano alla superficie; avevano belle voci, più belle di quelle umane, e quando c'era tempesta nuotavano fino alle navi che credevano potessero capovolgersi, e cantavano dolcemente di come era bello stare in fondo al mare e pregavano i marinai di non aver paura di arrivare laggiù; ma questi non erano in grado di capire le loro parole, credevano fosse la tempesta e non riuscivano comunque a vedere le bellezze del fondo del mare, perché quando la nave affondava, gli uomini affogavano e arrivavano al castello del re del mare già morti. Quando le sorelle, di sera, a braccetto, salivano sul mare, la sorellina più piccola restava tutta sola e le osservava; sembrava che volesse piangere, ma le sirene non hanno lacrime e per questo soffrono molto di più. "Ah, se solo avessi quindici anni" esclamava. "So bene che amerei quel mondo che è sopra di noi e gli uomini che vi abitano e vi costruiscono!"

Finalmente compì quindici anni. "Adesso sei grande anche tu!" disse la nonna, la vecchia regina vedova. "Vieni! Lascia che ti adorni, come le tue sorelle" e le mise una coroncina di gigli bianchi sui capelli, ma ogni petalo di fiore era formato da mezza perla; poi la vecchia fissò sulla coda della principessa otto grosse ostriche, per mostrare il suo alto casato. "Ma fa male!" disse la sirenetta. "Bisogna pur soffrire un po' per essere belli!" rispose la vecchia. Oh! Come avrebbe voluto togliersi di dosso tutti quegli ornamenti e quella pesante corona! I fiori rossi della sua aiuola la avrebbero adornata molto meglio, ma non osò cambiare le cose. "Addio!" esclamò, e salì leggera come una bolla d'aria attraverso l'acqua.

Il sole era appena tramontato quando affacciò la testa dall'acqua, tutte le nuvole però ancora brillavano come rose e oro; nel cielo color lilla splendeva chiara e bellissima la stella della sera; l'aria era mite e fresca e il mare calmo. C'era una grande nave con tre alberi, ma una sola vela era tesa perché non c'era il minimo soffio di vento; tra le sartie e i pennoni stavano seduti i marinai. C'era musica e canti e man mano che scendeva la sera si accendevano centinaia di luci multicolori. Sembrava che ondeggiassero nell'aria le bandiere di tutte le nazioni. La sirenetta nuotò fino all'oblò di una cabina e ogni volta che l'acqua la sollevava, vedeva attraverso i vetri trasparenti molti uomini ben vestiti; il più bello di tutti era però il giovane principe, con grandi occhi neri: non aveva certo più di sedici anni e compiva gli anni proprio quel giorno. Per questo c'erano quei festeggiamenti! I marinai ballavano sul ponte e quando il giovane principe uscì, si levarono in aria più di cento razzi che illuminarono a giorno. La sirenetta si spaventò e si rituffò nell'acqua, ma poco dopo riaffacciò la testa e le sembrò che tutte le stelle del cielo cadessero su di lei. Non aveva mai visto fuochi di quel genere. Grandi soli giravano tutt'intorno, bellissimi pesci di fuoco nuotavano nell'aria azzurra, e tutto si rifletteva nel bel mare calmo. Anche sulla nave c'era tanta luce che si poteva vedere ogni corda, e naturalmente gli uomini. Com'era bello quel giovane principe! Dava la mano a tutti, ridendo e sorridendo, mentre la musica risuonava nella splendida notte.

Era ormai tardi, ma la sirenetta non seppe distogliere lo sguardo dalla nave e dal bel principe. Le luci variopinte vennero spente, i razzi non vennero più lanciati in aria, non si sentirono più colpi di cannone, ma dal profondo del mare si sentì un rombo, e lei intanto si faceva dondolare su e giù dall'acqua, per guardare nella cabina; ma la nave prese velocità, le vele si spiegarono una dopo l'altra, le onde si fecero più grosse, comparvero grosse nuvole e da lontano si scorsero dei lampi. Sarebbe venuta una terribile tempesta! Per questo i marinai ammainarono le vele. La grande nave filava a gran velocità sul mare agitato, l'acqua si alzò come grosse montagne nere che volevano rovesciarsi sull'albero maestro, la nave si immerse come un cigno tra le alte onde e si fece sollevare di nuovo dall'acqua in movimento. La sirenetta pensò che quella fosse una bella corsa, ma i marinai non erano della stessa opinione; la nave scricchiolava terribilmente, le assi robuste cedevano sotto quei forti colpi, l'acqua colpiva la carena, l'albero maestro si spezzò come fosse stato una canna; la nave si piegò su un fianco, e l'acqua subito la riempì. Allora la sirenetta capì che erano in pericolo, lei stessa doveva stare attenta alle assi e ai relitti della nave che galleggiavano sull'acqua. Per un attimo fu talmente buio che non riuscì a vedere nulla, quando poi lampeggiò divenne così chiaro che riconobbe tutti gli uomini della nave; ognuno se la cavava come poteva; lei cercò il principe e lo vide scomparire nel mare profondo, proprio quando la nave affondò. Al primo momento fu molto felice, perché lui ora sarebbe sceso da lei, ma poi ricordò che gli uomini non potevano vivere nell'acqua, e che anche lui sarebbe arrivato al castello di suo padre solo da morto. No, non doveva morire! Nuotò tra le assi e i relitti della nave, senza pensare che avrebbero potuto schiacciarla, si immerse nell'acqua e risalì tra le onde finché giunse dal giovane principe, che quasi non riusciva più a nuotare nel mare infuriato. Cominciava a indebolirsi nelle braccia e nelle gambe, gli occhi gli si chiusero; sarebbe certo morto se non fosse giunta la sirenetta. Lei gli tenne la testa sollevata fuori dall'acqua e con lui si lasciò trasportare dalla corrente dove capitava.

Al mattino il brutto tempo era passato; della nave non era rimasta traccia, il sole sorgeva rosso e risplendeva sull'acqua; fu come se le guance del principe riacquistassero colore, ma gli occhi rimasero chiusi. La sirena lo baciò sulla bella fronte alta e carezzò indietro i capelli bagnati; le sembrò che assomigliasse alla statua di marmo che aveva nel suo giardinetto, lo baciò di nuovo e desiderò con forza che continuasse a vivere.Poi vide davanti a sé la terra ferma, alte montagne azzurre sulla cui cima la bianca neve risplendeva come ci fossero stati candidi cigni; lungo la costa si stendevano bei boschi verdi e proprio lì davanti si trovava una chiesa o un convento, non sapeva bene, ma era un edificio. Aranci e limoni crescevano nel giardino e davanti all'ingresso si alzavano delle palme; il mare disegnava lì una piccola insenatura, calmissima ma molto profonda, fino alla scogliera dove c'era sabbia bianca e sottile. Lei nuotò là col suo bel principe, lo posò sulla sabbia e si preoccupò che la testa fosse sollevata e rivolta verso il caldo sole. Suonarono in quel momento le campane di quel grande edificio bianco, e molte ragazze comparvero nel giardino. Allora la sirenetta si ritirò nuotando, dietro alcune alte pietre che spuntavano dall'acqua, si mise della schiuma tra i capelli e sul petto affinché nessuno la vedesse e aspettò che qualcuno andasse dal povero principe.

Non passò molto tempo e una fanciulla si avvicinò, si spaventò molto, ma solo per un attimo, poi andò a chiamare altra gente, e la sirena vide che il principe tornò in vita e sorrise a quanti lo circondavano, ma non sorrise a lei, anche perché non sapeva che era stata lei a salvarlo. Si sentì molto triste e quando lo ebbero portato dentro quel grande edificio, si reimmerse dispiaciuta nell'acqua e tornò al castello del padre.
Se era sempre stata calma e pensierosa, ora lo fu molto di più. Le sorelle le chiesero che cosa avesse visto la prima volta che era stata lassù, ma lei non raccontò nulla. Per molte volte al mattino e alla sera, risalì fino al punto in cui aveva lasciato il principe. Vide che i frutti del giardino erano maturi e venivano colti, vide che la neve si scioglieva dalle alte montagne; ma non vide mai il principe e così se ne tornava a casa ogni volta sempre più triste. La sua unica consolazione era quella di andare nel suo giardinetto e di abbracciare la bella statua di marmo che assomigliava al principe; non curava più i suoi fiori, che crescevano in modo selvaggio anche sui viali e intrecciavano i loro steli e le foglie con i rami degli alberi, così che c'era molto buio.

Alla fine non resse più, raccontò tutto a una sorella, e così anche le altre ne furono subito al corrente, ma poi nessun altro fu informato, eccetto poche altre amiche che pure non lo dissero a nessuno se non alle loro amiche più intime. Una di loro sapeva chi fosse quel principe, anche lei aveva visto la festa sulla nave e sapeva da dove veniva e dov'era il suo regno. "Vieni, sorellina!" dissero le altre principesse e, tenendosi sotto braccio, risalirono il mare fino al punto in cui si trovava il castello del principe.
Questo era fatto di una lucente pietra gialla, aveva grandi scalmate di marmo, una delle quali scendeva fino al mare. Splendide cupole dorate si innalzavano dal tetto, e tra le colonne che circondavano l'intero edificio si trovavano statue di marmo, che sembravano vive. Attraverso i vetri trasparenti delle alte finestre si poteva guardare in saloni meravigliosi, con preziose tende di seta e tappeti, con grandi quadri alle pareti che erano proprio divertenti da guardare. In mezzo al salone si trovava una fontana con lo zampillo che arrivava fino alla cupola di vetro del soffitto, attraverso la quale il sole faceva luccicare l'acqua e le belle piante che vi crescevano dentro.

Ora lei sapeva dove abitava il principe e vi tornò per molte sere, nuotava molto vicino alla terra, come nessun altro aveva osato fare, risaliva addirittura lo stretto canale fino alla magnifica terrazza di marmo che gettava una grande ombra sull'acqua. Qui si metteva a guardare il giovane principe, che credeva di trovarsi tutto solo al chiaro di luna. Lo vide molte volte navigare in una splendida barca, con la musica e le bandiere al vento, allora si affacciava tra le verdi canne e il vento le sollevava il lungo velo argenteo, e se qualcuno la vedeva poteva pensare che fosse un cigno ad ali spiegate. Per molte notti sentì i pescatori, che stavano in mare con le lanterne, parlare molto bene del principe, e fu felice di avergli salvato la vita quella volta che era quasi morto e si era abbandonato alle onde; pensò anche al capo che aveva riposato sul suo petto, e con quanta dolcezza lo aveva baciato, ma lui non ne sapeva niente e non poteva neppure sognarla.
Gli uomini le piacevano ogni giorno di più, e sempre più spesso desiderava salire e stare con loro: pensava che il loro mondo fosse molto più grande del suo: loro potevano navigare sul mare con le navi, arrampicarsi sulle alte montagne fin sopra le nuvole, e i campi che possedevano si estendevano con boschi e prati molto lontano, così lontano che non riusciva a vederli. C'erano tante cose che le sarebbe piaciuto sapere, ma le sorelle non sapevano rispondere a tutto, allora le chiese alla nonna che conosceva bene quel mondo di sopra che chiamava giustamente “il paese sopra il mare”. "Se gli uomini non affogano" chiese la sirenetta "possono vivere per sempre? Non muoiono come facciamo noi, nel mare?" "Certo" rispose la vecchia. "Anche loro devono morire e la lunghezza della loro vita è più breve della nostra. Noi possiamo arrivare fino a trecento anni, quando però non viviamo più diventiamo schiuma dell'acqua, non abbiamo una tomba tra i nostri cari; non abbiamo un'anima immortale e non vivremo mai più: siamo come le verdi canne che, una volta tagliate, non rinverdiscono! Gli uomini invece hanno un'anima che continua a vivere, vive anche dopo che il corpo è diventato terra; sale attraverso l'aria fino alle stelle lucenti! Come noi saliamo per il mare e vediamo la terra degli uomini, così loro salgono fino a luoghi bellissimi e sconosciuti, che noi non potremo mai vedere!" "Perché non abbiamo un'anima immortale?" chiese la sirenetta tutta triste "io darei cento degli anni che devo ancora vivere per essere un solo giorno come gli uomini e poi abitare nel mondo celeste!" "Non devi neanche pensare queste cose!" esclamò la vecchia. "Noi siamo molto più felici e stiamo certo meglio degli uomini." "Allora io devo morire e diventare schiuma del mare e non sentire più la musica delle onde, o vedere i bei fiori e il sole rosso! Non posso fare proprio nulla per ottenere un'anima immortale?" "No" rispose la vecchia. "Solo se un uomo ti amasse più di suo padre e di sua madre, e tu fossi l'unico suo pensiero e il solo oggetto del suo amore, e se un prete mettesse la sua mano nella tua con un giuramento di fedeltà eterna; solo allora la sua anima entrerebbe nel tuo corpo e tu riceveresti parte della felicità degli uomini. Egli ti darebbe un'anima, conservando sempre la propria. Ma questo non potrà mai accadere. La cosa che qui è così bella, la coda di pesce, è considerata orribile sulla terra. Non capiscono niente; per loro bisogna avere due strani sostegni che chiamano gambe, per essere belle!" La sirenetta sospirò guardando la sua coda di pesce. "Stiamo allegre!" disse la vecchia. "Saltiamo e balliamo per i trecento anni che possiamo vivere; non è certo poco tempo! Poi ci riposeremo più volentieri nella tomba. Stasera c'è il ballo a corte."

Quello era uno spettacolo meraviglioso che non si vede mai sulla terra! Le pareti e il soffitto dell'ampia sala da ballo erano costituite da un vetro grosso e trasparente. Migliaia di conchiglie enormi, rosa e verdi come l'erba, erano allineate da ogni lato, con un fuoco azzurro fiammeggiante che illuminava tutta la sala e si rifletteva oltre le pareti, così che il mare di fuori fosse tutto illuminato. Si potevano vedere innumerevoli pesci, grandi e piccoli, che nuotavano contro la parete di vetro; su alcuni brillavano squame rosse scarlatte, su altri, d'oro e d'argento. In mezzo alla sala scorreva un largo fiume dove danzavano i delfini e le sirene, che cantavano così soavemente. Gli uomini sulla terra non hanno certo voci così belle. La sirenetta cantò meglio di tutte, e tutti le batterono le mani, per un istante si sentì felice, perché sapeva di avere la voce più bella sia sul mare che sulla terra! Ma subito tornò a pensare al mondo che c'era sopra di loro; non riusciva a dimenticare quel bel principe e il suo dolore per il fatto di non possedere, come lui, un'anima immortale. Uscì in silenzio dal castello del padre e andò a sedersi nel suo giardinetto, mentre dall'interno risuonavano canti pieni d'allegria. Allora sentì attraverso l'acqua il suono dei corni e pensò: “Sta certamente navigando qua sopra, colui che io amo più di mio padre e di mia madre, che riempie ogni mio pensiero e nella cui mano io voglio riporre la felicità della mia vita. Voglio fare qualunque cosa per conquistare lui e un'anima immortale! Mentre le mie sorelle ballano nel castello di mio padre, io andrò dalla strega del mare, ho sempre avuto tanta paura di lei, ma forse mi potrà consigliare e aiutare!”.

La sirenetta uscì dal suo giardino e si avviò verso il torrente ribollente, dietro il quale abitava la strega. Non aveva mai percorso quella strada; non vi crescevano né fiori né erba, solo un fondo di sabbia grigia si stendeva verso il torrente, dove l'acqua, che sembrava spinta dalle ruote del mulino, girava come un vortice e inghiottiva tutto quel che poteva afferrare. Lei dovette passare in mezzo a quei vortici tremendi per arrivare nel territorio della strega, e qui c'era da attraversare una vasta pianura bollente, che la strega chiamava la sua torbiera. Oltre la torbiera si trovava la sua casa, in mezzo a un bosco orribile. Tutti gli alberi e i cespugli erano polipi, per metà bestie e per metà piante: sembravano centinaia di teste di serpente che crescevano dal terreno, tutti i rami erano lunghe braccia vischiose, con le dita simili a vermi ripugnanti, che si muovevano in ogni loro parte, dalle radici fino alla punta più estrema. Si avvolgevano intorno a tutto quel che potevano afferrare e non lo lasciavano mai più. La sirenetta si fermò spaventatissima; il cuore le batteva forte per la paura, stava per tornare indietro, ma pensò al principe e all'anima degli uomini, così le tornò il coraggio. Legò per bene i lunghi capelli svolazzanti, affinché i polipi non riuscissero ad afferrarli; mise le mani sul petto e partì passando come un pesce guizzante nell'acqua, tra gli orribili polipi, che allungavano i vischiosi tentacoli verso di lei. Vide ciò che og o si affacciavano come bianchi scheletri tra i tentacoli; remi di imbarcazioni e casse erano tenuti stretti, scheletri di animali e persino una sirenetta che avevano catturato e soffocato. Questa vista fu per lei la più spaventosa! Poi giunse in un'ampia radura di fango nel bosco, dove grossi serpenti di mare si rivoltavano mostrando i loro orribili denti gialli. Nel mezzo si trovava una casa fatta con le bianche ossa di uomini calati sul fondo; lì stava la strega del mare e lasciava che un rospo mangiasse dalla sua mano, come gli uomini fanno con i canarini quando gli danno lo zucchero. Quegli orribili grossi serpenti di mare erano chiamati "pulcini" dalla strega che lasciava le strisciassero sui grossi seni cadenti.

"So bene che cosa vuoi!" disse la strega del mare "sei proprio ammattita! comunque il tuo desiderio verrà soddisfatto, perché ti porterà sventura, mia bella principessa! Vuoi liberarti della tua coda di pesce e ottenere in cambio due sostegni per camminare come gli uomini, così che il giovane principe si innamori di te e tu possa ottenere un'anima immortale!" La strega rideva così sguaiatamente che il rospo e i serpenti caddero a terra e lì continuarono a rotolarsi. "Arrivi appena in tempo!" riprese. "Domani, una volta sorto il sole non potrei più aiutarti e dovresti aspettare un anno intero. Ti preparerò una bevanda, ma con questa devi nuotare fino alla terra, salire sulla spiaggia e berla prima che sorga il sole. Allora la tua coda si dividerà e si trasformerà in ciò che gli uomini chiamano gambe. Soffrirai come se una spada affilata ti trapassasse. Tutti quelli che ti vedranno, diranno che sei la più bella creatura umana mai vista! Conserverai la tua aggraziata andatura, nessuna ballerina sarà migliore di te, ma a ogni passo che farai, sarà come se camminassi su un coltello appuntito, e il tuo sangue scorrerà. Se vuoi soffrire tutto questo, ti aiuterò!"
"Sì" esclamò la principessa con voce tremante, pensando al principe, e all'anima immortale. "Ma ricordati" aggiunse la strega "una volta che ti sarai trasformata in donna, non potrai mai più ritornare ad essere una sirena! Non potrai più discendere nel mare dalle tue sorelle e al castello di tuo padre; e se non conquisterai l'amore del principe, cosicché lui dimentichi per te suo padre e sua madre, dipenda da te per ogni suo pensiero e chieda al prete di congiungere le vostre mani rendendovi marito e moglie, non avrai mai un'anima immortale! E se lui sposerà un'altra, il primo mattino dopo il matrimonio il tuo cuore si spezzerà e tu diventerai schiuma dell'acqua!" "Lo voglio ugualmente!" disse la sirenetta, che era pallida come una morta. "Però mi devi ricompensare!" aggiunse la strega "e non è poco quello che pretendo. Tu possiedi la voce più bella tra tutti gli abitanti del mare, e credi con quella di poterlo sedurre; ma la voce la devi dare a me. Io voglio ciò che tu di meglio possiedi per la mia preziosa bevanda! Devo versarci del sangue, affinché il filtro sia tagliente come una spada a due lame!” "Se mi prendi la voce” chiese la sirenetta "che cosa mi resta?” "La tua splendida persona, la tua armoniosa andatura e i tuoi occhi espressivi, con questo riuscirai certo a conquistare il cuore di un uomo. Allora! Hai perso il coraggio? Tira fuori la lingua così te la taglio; è il pagamento per quella potente bevanda!” "Va bene!” esclamò la sirenetta, e la strega mise sul fuoco la pentola per far bollire la bevanda magica. "La pulizia è un'ottima cosa!” disse mentre strofinava la pentola con alcune serpi legate insieme, poi si tagliò il petto e fece gocciolare il suo sangue nero, e il vapore assunse forme molto strane che facevano proprio paura. "Eccola qui!” disse la strega e tagliò la lingua alla sirenetta, che ora era muta e non poteva più né cantare né parlare. "Se i polipi volessero afferrarti, mentre passi di nuovo attraverso il mio bosco" spiegò la strega "getta una goccia di questa bevanda su di loro e le loro braccia e dita si romperanno in mille pezzi." Ma la sirenetta non ebbe bisogno di farlo; i polipi si allontanarono spaventati da lei non appena videro quella bevanda lucente che teneva in mano come fosse una stella luminosa. Così passò in fretta per il bosco, per la palude e per il torrente che ribolliva.

Vide il castello di suo padre, le luci erano spente nella grande sala da ballo; certamente tutti dormivano, e lei comunque non avrebbe osato cercarli: ora era muta e doveva andarsene per sempre. Le sembrò che il cuore si spezzasse per il dolore. Andò in silenzio nel giardino e prese un fiore da ogni giardinetto delle sorelle; gettò con le dita mille baci verso il castello e salì per il mare blu. Il sole non era ancora sorto quando vide il castello del principe e salì per la bellissima scalinata di marmo. La luna splendeva meravigliosa. La sirenetta bevve allora il filtro infuocato, e subito fu come se una spada a due lame le trafiggesse il corpo delicato; svenne e rimase distesa come morta. Quando il sole spuntò all'orizzonte, si svegliò e sentì un dolore lancinante, ma proprio davanti a lei stava il giovane principe, bellissimo, che la fissava con i magnifici occhi neri, così lei abbassò i suoi e vide che la sua coda di pesce era sparita e ora possedeva le più belle gambe bianche che mai nessuna fanciulla aveva avuto. Ma era tutta nuda e così si avvolse nei suoi capelli. Il principe le chiese chi fosse e come fosse arrivata fin lì, lei lo guardò dolcemente e tanto tristemente coi suoi occhi azzurri: non poteva parlare. Lui la prese per mano e la portò al palazzo. A ogni passo le sembrava, come la strega le aveva detto, di camminare su punte taglienti e su coltelli affilati, ma sopportò tutto volentieri, e tenendo il principe per mano salì le scale leggera come una bolla d'aria e sia lui che gli altri ammirarono la sua armoniosa andatura.

Ricevette costosi abiti di seta e di mussola, era la più bella del castello, ma era muta, non poteva né cantare né parlare. Graziose damigelle vestite d'oro e di seta avanzarono e cantarono davanti al principe e ai suoi genitori, una di loro cantò meglio delle altre e il principe batté le mani e le sorrise. In quel momento la sirenetta si rattristò; sapeva che avrebbe saputo cantare molto meglio, e pensò: "Dovrebbe proprio sapere che io, per stare vicino a lui, ho ceduto per sempre la mia voce!” Poi le damigelle danzarono balli meravigliosi su una musica dolcissima; allora anche la sirenetta tese le braccia bianche, si alzò sulla punta dei piedi e volteggiò, ballò come mai nessuno aveva fatto; a ogni movimento la sua bellezza era sempre più visibile e i suoi occhi parlavano al cuore meglio dei canti delle damigelle. Tutti rimasero incantati, soprattutto il principe, che la chiamò la sua trovatella, e lei continuò a danzare, anche se ogni volta che i piedi toccavano terra, era come toccassero coltelli affilati. Il principe le disse che sarebbe dovuta rimanere per sempre con lui e le diede il permesso di dormire fuori dalla sua stanza su un cuscino di velluto. Fece preparare per lei un costume da amazzone, affinché potesse accompagnarlo a cavallo. Cavalcarono in mezzo ai boschi profumati, dove i verdi rami sfioravano loro le spalle e gli uccellini cantavano tra le foglie fresche. La sirenetta si arrampicò col principe sulle alte montagne, e nonostante i suoi piedi sanguinassero a tal punto che anche gli altri se ne accorsero, lei ne rideva e lo seguì fino a dove poterono vedere le nuvole spostarsi sotto il loro, come fossero state stormi di uccelli che si dirigevano verso paesi stranieri.

Quando al castello di notte gli altri dormivano, lei andava alla scalinata di marmo e si rinfrescava i piedi doloranti immergendoli nell'acqua fresca del mare, e intanto pensava a coloro che stavano nelle profondità marine.

Una notte giunsero le sue sorelle a braccetto, cantarono tristemente, nuotando sulle onde, lei le salutò con la mano e loro la riconobbero e raccontarono quanto li avesse resi tristi. Da quella volta tutte le notti le facevano visita, e una notte vide, lontano, la vecchia nonna, che da molti anni non era più salita in superficie, e il re del mare, con la corona in testa; tesero le braccia verso di lei, ma non osarono avvicinarsi alla terra come le sue sorelle.
Ogni giorno il principe le voleva più bene, la amava come si può amare una cara fanciulla, ma non pensava certo di renderla regina; eppure lei doveva diventare sua moglie, altrimenti non avrebbe mai ottenuto un'anima immortale, e al mattino successivo al matrimonio del principe con un'altra sarebbe diventata schiuma. “Non vuoi più bene a me che a tutti gli altri?” sembrava chiedessero gli occhi della sirenetta, quando il principe la prendeva tra le braccia e le baciava la bella fronte. “Sì, tu sei la più cara di tutte!" diceva il principe "perché hai un cuore che è migliore di tutti gli altri, poi mi sei molto devota, e assomigli tanto a una fanciulla che vidi una volta, ma che sicuramente non troverò mai più. Ero su una nave che affondò, le onde mi trascinarono a riva vicino a un tempio dove servivano molte fanciulle; la più giovane mi trovò sulla spiaggia e mi salvò la vita, la vidi solo due volte; è l'unica persona che potrei amare in questo mondo, e tu le assomigli, e hai quasi sostituito la sua immagine nel mio animo. Lei appartiene al tempio e per questo la mia buona sorte ti ha mandato da me; non ci separeremo mai”.
“Oh, lui non sa che sono stata io a salvargli la vita!” pensò la sirenetta. “Io l'ho sorretto in mare fino al bosco dove si trova il tempio, io mi sono nascosta tra la schiuma per vedere se arrivava gente. E ho visto quella bella fanciulla che lui ama più di me!” E intanto sospirava profondamente, poiché non poteva piangere. “Ma quella ragazza appartiene al tempio, ha detto il principe, e non verrà mai nel mondo, non si incontreranno mai più, e io sono vicino a lui, lo vedo ogni giorno, avrò cura di lui, lo amerò e gli sacrificherò la mia vita!”

Un giorno si venne a sapere che il principe si doveva sposare con la bella principessa del reame confinante, e per questo stava allestendo una splendida nave. Il principe sarebbe andato a visitare il regno vicino, così si diceva, ma in realtà era per vedere la figlia del re; e avrebbe portato con sé un ricco seguito. Ma la sirenetta scuoteva la testa e rideva; conosceva il pensiero del principe molto meglio degli altri. “Sono costretto a partire” le aveva detto “devo incontrare quella bella principessa; i miei genitori lo vogliono, ma non mi costringeranno a portarla a casa come mia sposa. Non lo voglio! Non posso amarla, non assomiglia alla bella fanciulla del tempio, come le somigli tu. Se mai dovessi scegliere una sposa, allora prenderei te, mia trovatella muta con gli occhi parlanti!” E le baciò la bocca rossa, le carezzò i lunghi capelli e posò il capo sul suo cuore, che sognò una felicità umana e un'anima immortale. “Non hai paura del mare, vero, mia fanciulla muta?” le chiese il principe quando furono sulla meravigliosa nave che doveva portarli nel regno vicino, e le raccontò della tempesta e del mare calmo, degli strani pesci e di quello che i palombari avevano visto sul fondo, e lei sorrideva ai suoi racconti, lei che conosceva meglio di chiunque altro il fondo del mare.

Nella chiara notte di luna, mentre tutti gli altri dormivano fuorché il timoniere, si appoggiò al parapetto della nave e guardò verso l'acqua trasparente; le sembrò di vedere il castello di suo padre e la vecchia nonna con la corona d'argento in testa che osservava, attraverso le correnti del mare, il movimento della nave. Poi giunsero alla superficie le sue sorelle, che la fissarono tristemente tendendo le mani bianche verso di lei; lei le salutò, sorrise, e avrebbe voluto dire che tutto andava bene, ma il mozzo si avvicinò e le sorelle si immersero nell'acqua, così lui credette che quel biancore che aveva visto fosse la schiuma del mare.

Il mattino dopo la nave entrò nel porto della bella città del re vicino. Tutte le campane suonarono e dalle alte torri suonarono le trombe, mentre i soldati, tra lo sventolare delle bandiere, presentavano le baionette lucenti. Ogni giorno ci fu una festa. Balli e ricevimenti si susseguirono, ma la principessa non c'era ancora, abitava molto lontano, in un tempio, dissero, per imparare tutte le virtù necessarie a una regina. Finalmente un giorno arrivò. La piccola sirena era ansiosa di vedere la sua bellezza e dovette riconoscere di non aver mai visto una figura così graziosa. La pelle era molto delicata e trasparente, e sotto le lunghe ciglia scure due occhi azzurri e fiduciosi sorridevano. “Sei tu!” esclamò il principe “tu che mi hai salvato quando giacevo come morto sulla costa!” e strinse tra le braccia la fidanzata, che era arrossita. “Oh, sono troppo felice!” disse alla sirenetta. “La cosa più bella, che non avevo mai osato sperare, è avvenuta! Rallegrati con me, tu che mi vuoi così bene tra tutti!” E la sirenetta gli baciò la mano, ma sentì che il suo cuore si spezzava. Il mattino dopo le nozze sarebbe morta, trasformata in schiuma del mare. Tutte le campane suonarono, gli araldi cavalcarono per le strade ad annunciare il fidanzamento. Su tutti gli altari si bruciarono oli profumati in preziose lampade d'argento. I preti fecero oscillare gli incensieri mentre gli sposi si strinsero le mani e ricevettero la benedizione del vescovo.

La sirenetta, vestita di seta e d'oro, reggeva lo strascico, ma le sue orecchie non sentivano quella musica gioiosa, i suoi occhi non vedevano quella sacra cerimonia: pensava alla sua morte e a tutto quel che avrebbe perso in questo mondo. La sera stessa gli sposi salirono a bordo della nave, i cannoni spararono, e le bandiere sventolarono; in mezzo alla nave era stata montata una tenda reale fatta d'oro e di porpora, con cuscini sofficissimi, su cui la coppia di sposi avrebbe dovuto dormire in quella quieta e fredda notte. Le vele sventolavano al vento, e la nave scivolava leggera, senza scossoni, sul mare trasparente.

Quando venne buio si accesero le lampade variopinte e i marinai ballarono allegramente sul ponte. La sirenetta ripensò alla prima volta in cui si era affacciata sulla terra e aveva visto lo stesso splendore e la stessa gioia, si inserì nelle danze, volteggiò come fa la rondine quando viene inseguita, e tutti le mostrarono la loro ammirazione: non aveva mai ballato così bene. Sentiva i piedini come tagliati da coltelli affilati, ma non vi badò, le faceva più male il cuore. Sapeva che quella era l'ultima sera in cui vedeva colui per il quale aveva lasciato la sua gente e la sua casa, per il quale aveva rinunciato alla sua bella voce, per il quale aveva sofferto ogni giorno tormenti senza fine, che lui neppure poteva immaginare. Quella era l'ultima notte in cui avrebbe respirato la sua stessa aria; guardò verso il profondo mare e verso il cielo stellato: una notte eterna senza pensieri né sogni la aspettava, poiché non aveva un'anima, né poteva ottenerla. L'allegria e la gioia sulla nave durarono a lungo anche dopo mezzanotte; anche lei rise e danzò ma aveva pensieri di morte nel cuore. Il principe baciò la sua bella sposa e lei gli accarezzò i capelli neri, poi a braccetto andarono a riposarsi nella splendida tenda.

Calò il silenzio sulla nave, solo il timoniere era sveglio al timone; la sirenetta pose le bianche braccia sul parapetto e guardò verso est, per vedere il rosso dell'alba: il primo raggio di sole la avrebbe uccisa. Allora vide le sue sorelle spuntare fuori dal mare, erano pallide come lei, i loro lunghi e bei capelli non si agitavano più nel vento, erano stati tagliati. "Li abbiamo dati alla strega, perché ti venisse a aiutare affinché tu non muoia questa notte. Allora ci ha dato un coltello; eccolo! vedi com'è affilato? Prima che sorga il sole devi infilzarlo nel cuore del principe; quando il suo caldo sangue bagnerà i tuoi piedi, questi riformeranno una coda di pesce e tu ridiventerai una sirena e potrai gettarti in acqua con noi e vivere i tuoi trecento anni prima di morire e diventare schiuma salata. Fai presto! O tu o lui dovete morire prima che sorga il sole! La nonna soffre tanto e ha perso tutti i capelli bianchi, e i nostri sono caduti sotto le forbici della strega. Uccidi il principe e torna indietro! Presto! non vedi quella striscia rossa nel cielo? Tra pochi minuti sorgerà il sole e allora morrai!” Sospirarono profondamente e si reimmersero tra le onde.

La sirenetta sollevò il tappeto di porpora della tenda e vide la bella sposina dormire col capo sul petto del principe, si chinò verso di lui e gli baciò la bella fronte, guardò verso il cielo dove la luce dell'alba si faceva sempre più intensa, guardò il coltello affilato e poi fissò di nuovo gli occhi del principe, che in sogno pronunciò il nome della sua sposa; solo lei era nei suoi pensieri, e il coltello tremò nella mano della sirena. Allora lo gettò lontano tra le onde, che brillarono rosse dove era caduto: sembrava che gocce di sangue zampillassero dall'acqua. Ancora una volta guardò con lo sguardo spento verso il principe; poi si gettò in mare e sentì che il suo corpo si scioglieva in schiuma.

Il sole sorse alto sul mare, i raggi battevano caldi sulla gelida schiuma e la sirenetta non sentì la morte, vedeva il bel sole e su di lei volavano centinaia di bellissime creature trasparenti; attraverso le loro immagini poteva vedere la bianca vela della nave e le rosse nuvole del cielo, la loro voce era una melodia così spirituale che nessun orecchio umano poteva sentirla; così come nessun occhio umano poteva vederle. Volavano nell'aria senza ali, grazie alla loro stessa leggerezza. La sirenetta vide che aveva un corpo come il loro, e che si sollevava sempre più dalla schiuma. “Dove sto andando?” chiese la sirenetta, e la sua voce risuonò come quella delle altre creature, così spirituale che nessuna musica terrena poteva riprodurla.

“Dalle figlie dell'aria!” le risposero. “Le sirene non hanno un'anima immortale e non possono ottenerla se non conquistando l'amore di un uomo! La loro esistenza immortale dipende da una forza estranea. Anche le figlie dell'aria non hanno un'anima immortale, ma possono conquistarne una da sole, tramite le buone azioni. Noi andiamo verso i paesi caldi; dove l'aria calda e pestilenziale uccide gli uomini, noi portiamo il fresco. Spandiamo il profumo dei fiori nell'aria e portiamo ristoro e guarigione. Se per trecento anni interi continuiamo a fare tutto il bene che possiamo, otteniamo un'anima immortale e possiamo partecipare all'eterna felicità degli uomini. Tu, povera sirenetta, lo hai desiderato con tutto il cuore; anche tu, come noi, hai sofferto e sopportato, e sei arrivata al mondo delle creature dell'aria: ora puoi compiere delle buone azioni e conquistarti un'anima immortale fra trecento anni!”

La sirenetta sollevò le braccia trasparenti verso il sole del Signore e per la prima volta sentì le lacrime agli occhi. Sulla nave era ripresa la vita e il rumore; vide che il principe e la sua bella sposa la cercavano, e guardarono tristemente verso la schiuma del mare, quasi sapessero che si era gettata tra le onde. Invisibile baciò la sposa sulla fronte, sorrise al principe e salì con le altre figlie dell'aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo. “Fra trecento anni entreremo nel regno di Dio!” “Anche prima potremo arrivarci” sussurrò una di loro. “Senza farci vedere entriamo nelle case degli uomini, dove c'è qualche bambino; ogni volta che troviamo un bambino buono che rende felici i suoi genitori e merita il loro amore, il Signore ci abbrevia il periodo di prova. Il bambino non sa quando entriamo in casa, ma noi gli sorridiamo per la gioia, e così ci viene tolto un anno dei trecento che ci toccano; se invece troviamo un bambino cattivo e capriccioso, allora dobbiamo piangere di dolore e ogni lacrima aumenta di un giorno il nostro tempo di prova!”

(fiaba pubblicata per la prima volta nel 1836)


{loadnavigation}









La famiglia del naufrago di Luigi Carrer

Scritto da Amareilmare.it on . Postato in Racconti di mare

notte-buia-tempestosa-700-250


La famiglia del naufrago di Luigi Carrer

(1837)


Ella guardava il mare continuamente, il mare che le aveva rapito ogni sua speranza. Ella, la moglie del marinaio che avea naufragato dopo tre anni di lunga e difficile navigazione, al rompere della primavera, quando riconducevasi a casa, ed era a poche miglia, e possiamo dire in vista del porto!

La famigliuola, ed erano cinque, due ragazzi e tre figlie, le veniva in compagnia fino alla spiaggia, se le aggruppava dintorno malinconica e silenziosa: ma poi, non cessando la vedova di rammaricarsi e di guardare ora il cielo, ora l’acque, dove aveva perduto e dove sperava trovare il maritò, si spartivano a raccogliere conchiglie di sotto la sabbia, o a razzolare fra gli sfasciumi della nave abbandonati sul lido a imputridire, o ad essere rimescolati dalla marea.

Alessandro era il minore de’ figli, contava appena tre anni, nato dopo che la nave aveva fatto vela, non aveva veduto il padre suo e non era stato veduto da esso. E la madre industriavasi a vestirlo del suo meglio, a ravviargli le nere ciocche de’ capelli, e mettergli in capo un berrettino nuovo ed orlato molto graziosamente, quando credeva che il marito suo dovesse tornare: “Oh come gli parrà bello Alessandro! Il più piccolo e il più bello de’ suoi figli!”

E Alessandro, che non erasi punto addomesticato coir idea della morte, aveva interrogato alcuna volta la madre sua di maniera da strapparle le viscere: “Daviero che il papà non si Jarà più l’edere? E tu pure non lo iedrai più, mamma, egli che ti volea tanto bene, e tanto ne voleva a noi tutti, e a me cui mandava di lontano tanti saluti?” E poiché vedeva la madre piangere dirottissimamente e non potergli rispondere, erasi finalmente adattato a tacere, e mordevasi le labbra ogni volta che inavvertitamente trovavasi disposto a rinnovar la domanda. E la madre abbracciarlo e baciarlo, chiamandolo il suo caro Alessandro.

V’avea tra le genti della contrada chi a principio le tenne dietro, temendo della sua disperazione. Ma se l’animo suo addolorato l’avesse portata a qualche estrema deliberazione, avrebbe guardato il mare con tanta ansietà? Chi aspetta non è ancora disposto ad abbandonare la vita. E poi? Quando ritraevasi dalla vista del mare, non cercava un ristoro in cinque volti? Non parevale che qualcheduno dovesse esserle stato tolto fin tanto che si era indugiata a mirar l’acque?

Oh amore di madre! Tu comprendi molti altri amori, tu puoi risarcire molte altre perdite, e non puoi essere compensato da veruno acquisto. L’elezione e la necessità concorrono a renderli dolce e santo ad un tempo. Tu non lasci senza conforto la vedova del naufrago, finch’ella può destarsi al remore della procella, ed accorrere palpitante alla voce de’ suoi diletti che gemono sommessamente fra il sonno. Il mare e la morte hanno ancora di che farla trangosciare del solo pensiero: come potrebbe fuggire la vita?

Ma può ancora sperare? Il sole erasi corcato dietro un funestisimo velo di nubi. Avrebbesi detto che non dovesse più rivedere la terra, tanto era stato doloroso l’ultimo sguardo con cui erasi congedato nel suo tramontare. Tutta notte imperversarono i venti, e la vedova del naufrago non aveva mai chiuso occhio. Ad una fiera scossa, che fé suonare i battenti della finestra, una delle fanciulle erasi desta gridando: Avemmaria! E Alessandro, sognando, erasi lasciato scappare interrottamente le voci: “Aiuta, papà mio!” Poi erasi raccolto di nuovo a dormire.

La dimane la vedova era accorsa alla spiaggia. Sola, questa volta, e aveva avuto il coraggio di lasciare i fanciullini che ancora dormivano. Pareva accorrere ad una chiamata, così ne andava a passi solleciti ed assicurali. Il mare, non ancora rimesso dalla notturna burrasca, ne veniva con lunghe onde affilate ben entro terra, e la povera donna non si accorgeva di toccare coi piedi l’ultime spume.

Ma che cerca ella, curva sulla sabbia? E un non so che, ch’ella studiasi di sviluppare dall’aliga che lo rinvolge, un non so che di lucente. Che cosa? Una croce: la croce d’oro, che portava al collo il marito, e che il mare le volle restituire, quasi un annunzio venutole di là dal mondo, da colui ch’ella aveva tanto pianto e desiderato.

Non mi hai dunque affatto dimenticata? Non è rotta ogni corrispondenza fra noi? Afferrava convulsa la croce, la baciava, la puliva, la ribaciava. Egli mi ti ha mandato! Egli! Oh io sapeva che non dovevi lasciarmi così sola, senza nessuna novella! E non badava che il mare, ad ogni ora ingrossando, le avesse coperto pressochè tutti i piedi. Devo dunque tenere questa memoria? Essa è calda dell’ultimo tuo sospiro!

Mentre continuava, i figliuoli suoi erano accorsi alla spiaggia in traccia della madre. Precorreva a tutti Alessandro. Si destò alle loro grida dall’estasi di dolore in cui era immersa. Vieni, Alessandro! Guarda, il tuo papà ti ha mandato questa croce perchè tu la porti al collo tutta tua vita! Indi con solennità: “fatevi intorno tutti, inginocchiatevi; baciatela tutti”.

“Mamma”, disse Alessandro, “e non aveva ragione di dimandarti a ogni poco se il papà sarebbe tornato?” “Le tue parole furono il mio buon augurio”, rispose la madre. “Egli è tornato, levò brev’ora la testa dall’acqua, e mi rese la sua croce: custodiscila Alessandro, sovra il tuo cuore. Egli è il padre tuo che te l’ha mandata”.

Chi oserebbe contraddirle, chi disingannarla?

I fanciulli si guardavano tutti l’uno l’altro commossi, e riverenti prostraronsi davanti la madre loro. Dopo quel giorno la moglie del naufrago non guarda più il mare, non aspetta il marito. Bensì vorrebbe non indugiare a raggiugnerlo, dato avviamento a’ suoi figli. Frequenta una cappella ov’è il Santo de’ marinai e parla devotamente con Dio. Ella sa dove e come potrà rivedere per sempre chi le fu tolto. In quella croce n’ebbe un’arra infallibile; non venne a riva per caso.

Chi oserebbe contraddirle, chi disingannarla?

(da "Novelle e racconti" di Luigi Carrer, 1837)


{loadnavigation}









La ballata del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge

Scritto da Amareilmare.it on . Postato in Racconti di mare

notte-buia-tempestosa-700-250


La ballata del vecchio marinaio
di Samuel Taylor Coleridge


(1798)


PRIMA PARTE

È un vecchio marinaio, e ferma uno dei tre convitati: "Per la tua lunga barba grigia e il tuo occhio scintillante, e perchè ora mi fermi?

Le porte del Fidanzato son già tutte aperte, e io sono il più stretto parente; i convitati son già riuniti, il festino è servito, tu puoi udirne di qui l’allegro rumore".

Ma egli lo trattiene con mano di scheletro. "C’era una volta un bastimento ..." comincia a dire. "Lasciami, non mi trattener più, vecchio vagabondo dalla barba brizzolata!" E quello immediatamente ritirò la sua mano.

Ma con l’occhio scintillante lo attrae e lo trattiene. -E il Convitato resta come paralizzato, e sta ad ascoltare come un bambino di tre anni: il vecchio Marinaro è padrone di lui.

Il Convitato si mise a sedere sopra una pietra: e non può fare a meno di ascoltare attentamente. E cosí parlò allora quel vecchio uomo, il Marinaro dal magnetico sguardo:

"La nave, salutata, avea già lasciato il porto, e lietamente filava sull’onde, sotto la chiesa, sotto la collina, sotto l’alto fanale.

Il Sole si levò da sinistra, si levò su dal mare. Brillò magnificamente, e a destra ridiscese nel mare.

Ogni dì piú alto, sempre più alto finchè diritto sull’albero maestro, a mezzogiorno ..." Il Convitato si batte il petto impaziente, perchè sente risuonare il grave trombone.

La Sposa si è avanzata nella sala: essa è vermiglia come una rosa; la precedono, movendo in cadenza la testa, i gai musicanti.

Il Convitato si percuote il petto, ma non può fare a meno di stare a udire il racconto. E così seguitò a dire quell’antico uomo, il Marinaro dall’occhio brillante.

"Ed ecco che sopraggiunse la burrasca, e fu tirannica e forte. Ci colpì con le sue irresistibili ali, e, insistente, ci cacciò verso sud.

Ad alberi piegati, a bassa prora, come chi ha inseguito con urli e colpi pur corre a capo chino sull’orma del suo nemico, la nave correva veloce, la tempesta ruggiva forte, e ci s’inoltrava sempre piú verso il sud.

Poi vennero insieme la nebbia e la neve; si fece un freddo terribile: blocchi di ghiaccio, alti come l’albero della nave, ci galleggiavano attorno, verdi come smeraldo.

E traverso il turbine delle valanghe, le rupi nevose mandavano sinistri bagliori: non si vedeva più forma o di bestia - ghiaccio solo da per tutto.

Il ghiaccio era qui, il ghiaccio era là, il ghiaccio era tutto all’intorno: scricchiolava e muggiva, ruggiva ed urlava. Come i rumori che si odono in una sincope.

Alla fine un Albatro passò per aria, e venne a noi traverso la nebbia. Come se fosse stato un’anima cristiana, lo salutammo nel nome di Dio.

Mangiò del cibo che gli demmo, benchè nuovo per lui; e ci volava e rivolava d’intorno. Il ghiaccio a un tratto si ruppe, e il pilota potè passare fra mezzo.

E un buon vento di sud ci soffiò alle spalle, e l’Albatro ci teneva dietro; e ogni giorno veniva a mangiare o scherzare sul bastimento, chiamato e salutato allegramente dai marinari.

Tra la nebbia o tra ’l nuvolo, su l’albero o su le vele, si appollaiò per nove sere di seguito; mentre tutta la notte attraverso un bianco vapore splendeva il bianco lume di luna."

"Che Dio ti salvi, o Marinaro, dal demonio che ti tormenta! - Perchè mi guardi cosí, Che cos’hai?" - "Con la mia balestra, io ammazzai l’ALBATRO!


SECONDA PARTE

Il sole ora si levava da destra: si levava dal mare, circonfuso e quasi nascosto fra la nebbia, e si rituffava nel mare a sinistra.

E il buon vento di sud spirava ancora dietro a noi, ma nessun vago uccello lo seguiva, e in nessun giorno riapparve per cibo o per trastullo al grido dei marinari.

Oh, io avevo commesso un’azione infernale, e doveva portare a tutti disgrazia; perchè, tutti lo affermavano, io avevo ucciso l’uccello che faceva soffiare la brezza. Ah, disgraziato, dicevano, ha ammazzato l’uccello che faceva spirare il buon vento.

Nè fosco nè rosso, ma sfolgorante come la faccia di Dio, si levò il sole gloriosamente. Allora tutti asserirono che io avevo ucciso l’uccello che portava i vapori e le nebbie. È bene, dissero, è bene ammazzare simili uccelli, che apportano i vapori e le nebbie.

La buona brezza soffiava, la bianca spuma scorreva, il solco era libero: eravamo i primi che comparissero in quel mare silenzioso...

A un tratto, il vento cessò, e cadder le vele; fu una desolazione ineffabile: si parlava soltanto per rompere il silenzio del mare.

Solitario in un soffocante cielo di rame, il sole sanguigno, non più grande della luna, si vedeva a mezzogiorno pender diritto sull’albero maestro.

Per giorni e giorni di seguito, restammo come impietriti, non un alito, non un moto; inerti come una nave dipinta sopra un oceano dipinto.

Acqua, acqua da tutte le parti; e l’intavolato della nave si contraeva per l’eccessivo calore; acqua, acqua da tutte le parti; e non una goccia da bere!

Il mare stesso si putrefece. O Cristo! che ciò potesse davvero accadere? Sì; delle cose viscose strisciavano trascinandosi su le gambe sopra un mare glutinoso.

Attorno, attorno, turbinosi, innumerevoli fuochi fatui danzavano la notte: l’acqua, come l’olio nella caldaia d’una strega, bolliva verde, blu, bianca.

E alcuni, in sogno, ebbero conferma dello spirito che ci colpiva così: a nove braccia di profondità, ci aveva seguiti dalla regione della nebbia e della neve.

E ogni lingua, per l’estrema sete, era seccata fino alla radice; non si poteva più articolare parola, quasi fossimo soffocati dalla fuliggine.

Ohimè! che sguardi terribili mi gettavano, giovani e vecchi! In luogo di croce, mi fu appeso al collo l’Albatro che avevo ucciso.


TERZA PARTE

E passò un triste tempo. Ogni gola era riarsa, ogni occhio era vitreo. Un triste tempo, un triste tempo! E come mi fissavano tutti quegli occhi stanchi! Quand’ecco, guardando verso occidente, io scorsi qualche cosa nel cielo.

Da prima, pareva una piccola macchia, una specie di nebbia; si moveva, si moveva, e alla fine parve prendere una certa forma.

Una macchia, una nebbia, una forma, che sempre più si faceva vicina: e come se volesse sottrarsi ed evitare un fantasma marino, si tuffava, si piegava, si rigirava.

Con gole asciutte, con nere arse labbra, non si poteva nè ridere nè piangere. In quell’eccesso di sete, stavano tutti muti. Io mi morsi un braccio, ne succhiai il sangue, e gridai: Una vela! Una vela!

Con arse gole, con nere labbra bruciate, attoniti mi udiron gridare. Risero convulsamente di gioia: e tutti insieme aspirarono l’aria, come in atto di bere.

Vedete! vedete! (io gridai) essa non gira più, ma vien dritta a recarci salute: senza un alito di vento, senza corrente, si avanza con la chiglia elevata.

A occidente l’acqua era tutta fiammeggiante; il giorno era presso a finire. Sull’onda occidentale posava il grande splendido sole - quand’ecco quella strana forma s’interpose fra il sole e noi.

E a un tratto il sole apparve listato di strisce (che la celeste Madre ci assista!) come se guardasse dalla inferriata di una prigione con la sua faccia larga ed accesa.

Ohimè! (pensavo io, e il cuore mi batteva forte), come si avvicina rapidamente, ogni momento di più! Son quelle le sue vele, che scintillano al sole come irrequiete fila di ragno?

Son quelle le sue coste, traverso a cui il sole guarda come traverso a una grata? E quella donna là è tutto l’equipaggio? È forse la Morte? o ve ne son due? o è la Morte la compagna di quella donna?

Le sue labbra eran rosse, franchi gli sguardi, i capelli gialli com’oro: ma la pelle biancastra come la lebbra... Essa era l’Incubo VITA-IN-MORTE, che congela il sangue dell’uomo.

Quella nuda carcassa di nave ci passò di fianco, e le due giocavano ai dadi. "Il gioco è finito! ho vinto, ho vinto!" dice l’una, e fischia tre volte.

L’ultimo lembo di sole scompare: le stelle accorrono a un tratto: senza intervallo crepuscolare, è già notte. Con un mormorio prolungato fuggì via sul mare quel battello-fantasma.

Noi udivamo, e guardavamo di sbieco, in su. Il terrore pareva suggere dal mio cuore, come da una coppa, tutto il mio sangue vitale. Le stelle erano torbide, fitta la notte, e il viso del timoniere splendeva pallido e bianco sotto la sua lanterna.

La rugiada gocciava dalle vele; finchè il corno lunare pervenne alla linea orientale, avendo alla sua estremità inferiore una fulgida stella.

L’un dopo l’altro, al lume della luna che pareva inseguita dalle stelle, senza aver tempo di mandare un gemito o un sospiro, ogni marinaro torse la faccia in una orribile angoscia, e mi maledisse con gli occhi.

Duecento uomini viventi (e io non udii nè un sospiro nè un gemito), con un grave tonfo, come una inerte massa, caddero giù l’un dopo l’altro.

Le anime volaron via dai loro corpi - volarono alla beatitudine o alla dannazione; ed ogni anima mi passò d’accanto sibilando, come il fischio della mia balestra.


QUARTA PARTE

"Tu mi spaventi, vecchio Marinaro! La tua scarna mano mi fa paura! Tu sei lungo, magro, bruno come la ruvida sabbia del mare.

Ho paura di te, e del tuo occhio brillante, e della tua bruna mano di scheletro..." - "Non temere, non temere, o Convitato! Questo mio corpo non cadde fra i morti.

Solo, solo, affatto solo - solo in un immenso mare! E nessun santo ebbe compassione di me, della mia anima agonizzante.

Tutti quegli uomini così belli, tutti ora giacevano morti! e migliaia e migliaia di creature brulicanti e viscose continuavano a vivere, e anch’io vivevo.

Guardavo quel putrido mare, e torcevo subito gli occhi dall’orribile vista; guardavo sul ponte marcito, e là erano distesi i morti.

Alzai gli occhi al cielo, e tentai di pregare; ma appena mormoravo una prece, udivo quel maledetto sibilo, e il mio cuore diventava arido come la polvere.

Chiusi le palpebre, e le mantenni chiuse; e le pupille battevano come polsi; perchè il mare ed il cielo, il cielo ed il mare, pesavano opprimenti sui miei stanchi occhi; e ai miei piedi stavano i morti.

Un sudore freddo stillava dalle loro membra, ma non imputridivano, nè puzzavano: mi guardavano sempre fissi, col medesimo sguardo con cui mi guardaron da vivi.

La maledizione di un orfano avrebbe la forza di tirar giù un’anima dal cielo all’inferno; ma oh! più orribile ancora è la maledizione negli occhi di un morto! Per sette giorni e sette notti io vidi quella maledizione... eppure non potevo morire.

La vagante luna ascendeva in cielo e non si fermava mai: dolcemente saliva, saliva in compagnia di una o due stelle.

I suoi raggi illusori davano aspetto di una distesa bianca brina d’aprile a quel mare putrido e ribollente; ma dove si rifletteva la grande ombra della nave, l’acqua incantata ardeva in un monotono e orribile color rosso.

Al di là di quell’ombra, io vedevo i serpi di mare muoversi a gruppi di un lucente candore; e quando si alzavano a fior d’acqua, la magica luce si rifrangeva in candidi fiocchi spioventi.

Nell’ombra della nave, guardavo ammirando la ricchezza dei loro colori; blu, verde-lucidi, nero-vellutati, si attorcigliavano e nuotavano; e ovunque movessero, era uno scintillio di fuochi d’oro.

O felici creature viventi! Nessuna lingua può esprimere la loro bellezza: e una sorgente d’amore scaturì dal mio cuore, e istintivamente li benedissi. Certo il mio buon Santo ebbe allora pietà di me, e io inconsciamente li benedissi.

Nel momento stesso potei pregare; e allora l’Albatro si staccò dal mio collo, e cadde, e affondò come piombo nel mare.


QUINTA PARTE

Oh, il sonno! esso è una cosa soave, amata da un polo all’altro. Sia lodata la Vergine Maria! Essa dal cielo mi mandò il dolce sonno che penetrò nella mia anima.

Sognai che le secchie rimaste inutili per tanto tempo sul ponte, erano piene di rugiada; e quando mi destai, pioveva.

Le mie labbra eran bagnate, la mia gola rinfrescata, tutti i miei vestiti inzuppati d’acqua: certo io avevo bevuto durante il sogno, e ancora bevevo.

Mi mossi, e non sentivo più le mie membra: ero così leggero, che quasi credetti di essere morto dormendo, e diventato uno spirito benedetto.

A un tratto sentii un muggito di vento: non pareva che si avvicinasse, - ma col solo rumore scoteva le vele che erano così sottili e riarse!

L’aria in alto si animò a un tratto, e cento banderuole di fuoco abbagliante si agitarono di qui, di là, per ogni verso: e da ogni parte le pallide stelle parevano danzare in quel turbinio.

Il vento si avvicinava e ruggiva più forte, e le vele sospiravano col mormorio della saggina; e la pioggia si rovesciò giù da una sola nuvola nera, al cui estremo lembo appariva la luna.

Il fitto nugolo nero si squarciò; ma la luna gli restò accanto: come acque lanciate da qualche alta rupe, i lampi si succedevano senza interruzione, in largo e precipitoso torrente.

Il gagliardo vento non arrivava fino alla nave; eppure la nave cominciò a muoversi! Al misto bagliore dei lampi e della luna, gli uomini morti a un tratto mandarono un gemito.

Mandarono un gemito, si smossero, si levarono tutti in piedi - ma senza parlare, e senza girare gli occhi. Sarebbe stato strano anche in un sogno, aver visto quei morti alzarsi da terra!...

Guidato dal timoniere, il bastimento cominciò a muoversi; eppure nessun soffio lo spingeva dall’alto. I marinari cominciarono tutti a manovrare ai cordami secondo il solito, muovendo le membra meccanicamente come inanimati strumenti... Oh, noi eravamo uno spaventoso equipaggio!

Il corpo di un mio nipote mi stava accanto, ginocchio a ginocchio: quel corpo ed io si manovrava ad un medesimo canapo, ma egli non mi diceva una parola..."

"Tu mi fai terrore, vecchio Marinaro!" "Rassicùrati, o Convitato! non eran le anime dei morti nell’angoscia, tornati a vivificare i cadaveri; ma una schiera di beati spiriti.

E quando albeggiò, essi piegaron le braccia e si affollarono intorno all’albero maestro. Dolci suoni uscirono lentamente dalle loro bocche, ed esalarono dai loro corpi.

Intorno intorno volava ognuno di quei dolci suoni; e ascendeva rapido al sole; poi lenti e soavi tornavano indietro, ora in coro, ora ad uno ad uno.

Talvolta mi pareva di udir cantare l’allodola scendente dal cielo; talvolta era come se cantassero insieme tutti gli uccellini, ed empissero l’aria ed il mare coi loro dolci gorgheggi.

Ed ora pareva un pieno di strumenti, ora come un flauto solitario; - ed era il canto di un angelo che i cieli ascoltano muti.

Cessò; ma le vele continuarono il loro lieto mormorio fino a mezzogiorno, il mormorio di un nascosto ruscello nel fiorito mese di giugno, che canta tutta la notte una tranquilla melodia ai boschi dormienti.

Navigammo placidamente fino a mezzogiorno, ma senza un soffio di brezza; lentamente, pianamente, il bastimento procedeva come spinto da un impulso sottomarino.

A nove tese di profondità sotto la chiglia, venuto dalla regione della nebbia e della neve, scorreva uno spirito - era esso che metteva in moto la nave: ma a mezzodì le vele cessarono il loro mormorìo, e la nave si arrestò.

Il sole alto sull’albero maestro la vide immobilizzata sull’acque; ma dopo un minuto cominciò ad agitarsi con un breve e difficile movimento: andando avanti e indietro metà della sua lunghezza, con un corto e penoso movimento.

Poi, come uno scalpitante cavallo lasciato andare ad un tratto, essa fece un subito sbalzo... Mi andò tutto il sangue alla testa, e caddi svenuto.

Non saprei dire quanto durasse lo svenimento: ma prima di riprendere i sensi, io udii e intimamente distinsi due voci nell’aria.

"È lui? - diceva una - è questo l’uomo? Per Colui che spirò sulla croce; è lui che con la crudele balestra abbattè l’Albatro innocente!

Lo spirito che abita solitario nella regione della nebbia e della neve amava l’uccello amante dell’uomo, che l’uomo ingrato uccise con la sua balestra."

L’altra era una voce più bassa, dolce come stille di miele, e diceva: "L’uomo ne ha già fatto penitenza, e altra penitenza ha da fare."


SESTA PARTE

prima voce

"Ma dimmi, dimmi, parla di nuovo, rinnovando le tue dolci note. - Che cos’è che spinge così veloce la nave? E che va facendo l’Oceano?"

seconda voce

"Immobile come uno schiavo dinanzi al mio signore, l’Oceano non ha più un soffio; guarda in silenzio col suo grande e scintillante occhio la Luna, come per domandare in che direzione ha da muoversi - perchè è lei che lo guida, calmo o agitato. Vedi, fratello, vedi con che soave grazia essa guarda in giù sopra di lui!"

prima voce

"Ma come mai quella nave, senza onda e senza vento, scorre così veloce?"

seconda voce

"L’aria le è rotta dinanzi, e si richiude subito dietro il suo passaggio.

Vola, fratello, vola! Più alto! Più alto! O noi saremo in ritardo; poichè la nave si muoverà lenta lenta, appena ritorni in sè il marinaro."

Mi destai; e si navigava come in propizia stagione. Era notte, una notte tranquilla, la luna era alta - gli uomini morti giacevano uno accanto all’altro.

Giacevano tutti insieme sul ponte, che pareva diventato un carnaio: tutti fissavan su di me i loro occhi impietriti che brillavano al lume della luna.

L’angoscia, la maledizione con la quale morirono, non era sparita mai: io non potevo staccare i miei occhi dai loro, nè sollevarli per pregare.

Ma finalmente questo incanto fu rotto: ancora una volta rivedevo l’oceano verde; e benchè spingessi lontano lo sguardo, non scorgevo quasi più nulla dei passati prodigi.

Ero come un uomo che in una via solitaria si avanza con timore e terrore, ed essendosi voltato un momento, ricammina senza più volger la testa; perchè sente che un orribil demonio è dietro i suoi passi.

Ma presto alitò una brezza su me, senza produrre suono nè moto; il suo passaggio non era sul mare, nell’onda, o nell’ombra.

Mi sollevava i capelli, mi sventolava su le gote, soave come uno zeffiro sui prati di primavera - si mescolava stranamente anch’essa con le mie paure, eppure la sentivo come un fausto saluto.

Rapida, rapida, filava la nave, eppur veleggiava soavemente; dolcemente spirava la brezza - e spirava sopra me solo.

Oh sogno di gioia! Quella ch’io vedo è davvero la punta del fanale? È quella la collina? quella la chiesa? è proprio questo il mio paese?

Si entrò in porto, e io pregai singhiozzando: Mio Dio fa che ora mi desti - o se questo è un sogno, fammi dormire per sempre!

L’acqua nel porto era limpida come cristallo, e sì placidamente stendevasi! la baia era tutta illuminata dal chiarore lunare.

La rupe risplendeva, e non meno la chiesa che è su la rupe; la luna illuminava in perfetto silenzio l’immobile banderuola.

La baia era tutta bianca nella tacita luce, quand’ecco sorgenti da essa varie forme, che erano ombre, apparvero in vermigli colori.

Quelle ombre vermiglie erano a poca distanza dalla prora. Io girai gli occhi sul ponte... - O Cristo, che cosa vi vidi!

Ogni cadavere giaceva inanime e irrigidito, e, per la santa Croce! Un uomo tutto luce, un uomo-angelo, stava presso ogni morto.

Ciascuno di quella serafica schiera accennava con la mano: era una celeste visione! Essi stavano come segnali alla terra, ognuno un soave splendore.

Ognuno dell’angelica schiera stendeva la mano accennando, e non emisero voce - nessuna voce ; ma oh! Quel silenzio scese come una musica nel mio cuore!

A un tratto udii un tuffo di remi; udii il grido del pilota; ignota forza mi fece volger la testa, ed ecco apparire un battello.

Sentii avvicinarsi rapidamente il pilota e il suo ragazzo. Gran Dio del cielo, fu tale la gioia, che i morti stessi non potevan turbarla.

Vidi una terza persona, e sentii la sua voce. Egli è il buon eremita! Canta a voce alta i santi inni che compone nel bosco. Egli mi confesserà - egli laverà la mia anima dal sangue dell’ Albatro.


SETTIMA PARTE

Il buon eremita dimora in un bosco che costeggia il mare. Ha una forte e simpatica voce, e ama conversare coi marinari che vengono da lontane regioni.

S’inginocchia la mattina, a mezzogiorno, e la sera: e ha per morbido cuscino il muschio che riveste un vecchio tronco di quercia.

Il battello si avvicinava. Io li sentivo parlare: "È strano davvero! E dove son ora quei tanti e belli splendori che dianzi ci facevano cenno?"

"Strana cosa davvero in fede mia! (soggiunse l’eremita) non è stato nemmeno risposto al nostro saluto! L’intavolato della nave è tutto sconnesso, e vedete le vele, come sono sottili e consunte!

Io non ho mai visto nulla di simile, se non fosse per quei bruni scheletri di foglie che galleggiano nel ruscello del mio bosco; quando i rami d’ellera son coperti di neve, e il gufo ulula al lupo che divora i lupicini".

"Signore Iddio! ha proprio un aspetto diabolico (aggiunse il pilota) e io sono stordito dallo spavento." - "Coraggio e avanti!" rispose allegramente l’eremita.

Il battello si appressò alla nave; ma io non dissi parola, nè feci motto; il battello venne proprio accosto alla nave, e immediatamente fu udito un rumore.

Un rumore che dapprima brontolava sott’acqua, poi si fece più forte e più spaventoso... arrivò alla nave, sconvolse tutta la baia... e la nave affondò come piombo.

Stordito da quell’orribil fracasso che scosse mare e cielo, il mio corpo galleggiava come quello di un annegato da sette giorni - quando a un tratto, come in un sogno, mi ritrovai nel battello del pilota.

Sulla voragine dove affondò il bastimento il battello si aggirava vorticoso. Tutto era tornato tranquillo; solo la collina echeggiava ancora del gran rimbombo.

Quando io mossi le labbra per parlare, il pilota mandò un grido, e cadde svenuto. Il buon eremita levò gli occhi al cielo, e si mise a pregare.

Io afferrai i remi. Il ragazzo del pilota, che ora è diventato pazzo, rideva forte e a lungo, girando gli occhi di qua e di là. "Ah! ah! (diceva) mi accorgo ora che il Diavolo ha imparato a remare".

Ed ecco io misi piede sulla terra ferma, nel mio paese nativo. L’eremita uscì con me dal battello, ma poteva reggersi appena.

"Oh confessami, sant’uomo, confessami!" - L’eremita aggrottò il sopracciglio. "Dimmi subito, t’impongo di dirlo, che razza d’uomo sei tu?"

E immediatamente questa mia persona fu torturata in una tremenda agonia che mi obbligò a raccontar la mia storia; e solamente dopo averla narrata, mi sentii sollevato.

Fin d’allora, a un’epoca indeterminata, riprovo quell’agonia; e finchè non ho rifatto lo spaventoso racconto, il cuore mi brucia nel petto.

Io passo, come la notte, di terra in terra, e ho una strana facoltà di parola. Appena lo vedo in viso, riconosco subito l’uomo destinato ad udirmi; e gli comincio a dire l’edificante mia storia.

Che alto strepito esce da quella porta! I Convitati sono tutti là: la sposa e le sue damigelle son nel giardino e si odon cantare... Ma ecco la campanella del vespro che invita me alla preghiera.

O Convitato! Quest’anima si è trovata sola sull’ampio, ampio mare: tanto sola, che Dio stesso pareva appena esser là.

Oh, più dolce del nuziale festino, molto più dolce per me, è l’avviarmi alla chiesa, in devota compagnia.

Incamminarmi alla chiesa, e là pregar tutti insieme, mentre ognun s’inchina al gran Padre, vecchi, bambini, teneri amici, e giovani, e allegre fanciulle.

Addio, addio! Ma questo io dico a te, o Convitato: prega bene sol chi ben ama e gli uomini e gli uccelli e le bestie.

Prega bene colui che meglio ama tutte le creature, piccole e grandi; poichè il buon Dio che ci ama, ha fatto e ama tutti.

Il marinaro dall’occhio brillante, dalla barba brinata dagli anni, è sparito - e ora il Convitato non si dirige più alla porta dello sposo.

Egli se ne venne, come stordito, e fuori dai sensi. E quando si levò la mattina dopo, era un uomo più triste e più savio.

(dalla raccolta "Lyrical Ballads" di William Wordsworth e di Samuel Taylor Coleridge)


{loadnavigation}









Il vascello maledetto di Emilio Salgari

Scritto da Amareilmare.it on . Postato in Racconti di mare

notte-buia-tempestosa-700-250



Il vascello maledetto di Emilio Salgari

(1894) 

Ecco papà Catrame seduto sul barilotto, colle gambe incrociate alla maniera dei turchi, e circondato da tutti i marinai i quali sbarrano tanto d'occhi e aguzzano per bene gli orecchi per non perdere una sillaba dl quanto egli sta per narrare.

L'Oceano Indiano era così calmo da permettere a tutti - il timoniere eccettuato - di prendere parte a quelle narrazioni interessanti e meravigliose. Un leggero vento che veniva dalle coste d'Africa spingeva la nave verso l'Est, a quella terra strana che si chiama India, e dalla quale eravamo ancora lontani, tanto da poter udire tutte le dodici novelle richieste dal nostro amabile capitano.

Mastro Catrame, dopo d'aver reclamato con un gesto e un'occhiata uno scrupoloso silenzio da parte di tutto l'uditorio, tracannò d'un sol fiato un grande bicchiere di vecchio Cipro per snebbiarsi il cervello, spezzò coi lunghi denti gialli da vecchio topo un eccellente sigaro d'Avana che gli porgeva il capitano, l'accese con visibile soddisfazione, poi disse con voce grossa e da oltre tomba:

- Io appartengo a una generazione che è quasi tutta spenta, poiché sono vecchio, vecchio assai, e tutti quelli che m'hanno veduto mozzo riposano in fondo alla grande tazza da molti anni, o dentro il ventre di qualche grosso pescecane.

Si fermò, quand'ebbe ciò detto, guardandoci con malizia per vedere quale effetto avesse prodotto quella lugubre prefazione che metteva i brividi, poiché aveva una intonazione strana, paurosa; poi continuò:

- Sono vissuto in un'epoca in cui si credeva alla comparsa dei vascelli fantasmi, agli esorcismi per calmare le tempeste o per sciogliere le grandi trombe marine, alle sirene che venivano a cantare sotto la poppa delle navi attirando gli incauti marinai, agli spiriti del mare, a Nettuno, il re degli abissi oceanici, alla comparsa dei marinai naufragati, ai mostri, alle streghe, alle figlie della spuma. Voi non credete più a tutto ciò, le chiamate leggende paurose, inventate da uomini ubriachi o dalla fantasia tetra dei popoli nordici; ma v'ingannate. Papà Catrame ha veduto molto: le sirene, i morti, i vascelli fantasmi e più ancora.

Il vecchio lupo di mare, dopo questo secondo esordio non meno lugubre del primo, girò intorno un altro sguardo. Nessuno fiatava, né batteva ciglio: eravamo tutti impressionati e i volti dei mozzi e dei giovani marinai erano impalliditi. Solo il capitano si manteneva impassibile, e le sue labbra si erano atteggiate ad un sorriso beffardo.

Papà Catrame rimase alcuni istanti silenzioso per raccogliere meglio le idee, indi riprese:

- Non ricordo più l'epoca, poiché sono trascorsi moltissimi anni ed io ero ancora un ragazzo, non più mozzo, ma non ancora marinaio. Avevo preso imbarco su di una grande fregata a tre ponti, un tipo di nave che non si trova più, poiché tutto è cambiato ora, cambiate le navi, come le abitudini marinaresche.

- Si chiamava la Santa Barbara: ma il capitano, uno spregiudicato che non temeva né Dio, né il diavolo, che bestemmiava da mane a sera come il leggendario olandese del vascello fantasma, e non credeva in nulla, le aveva imposto un altro nome: il Caronte.

- Brutte storie correvano sul conto di quella fregata, comandata da quel dannato, un vero dannato, ve lo dice papà Catrame! Si diceva che tutte le notti, nel fondo della tenebrosa cala, si udivano dei misteriosi fragori e dei gemiti; che nelle corsìe si vedevano passare delle ombre bianche che poi scomparivano, e che sulla cima degli alberi appariva sovente una fiammella azzurra. Si diceva ancora che tutte le notti un marinaio nero nero, col viso coperto da una lunga barba rossa, entrava nella cabina del capitano per giocare e bere. Chi fosse, io non ve lo saprei dire; ma i marinai del Caronte sussurravano che doveva essere messer Belzebù: altri invece asserivano che era uno dei marinai fatti ingiustamente appiccare dal capitano, poiché quell'uomo era crudele e aveva ucciso parecchi dei suoi per un nonnulla. Insomma tutti avevano paura, e quando la nave approdava, non pochi marinai disertavano, temendo di finirla male in compagnia di quel tizzone d'inferno.

- Un abate, che un tempo era stato amico del capitano, aveva cercato di persuadere il testardo bestemmiatore a ridare alla nave il primiero nome e a ravvedersi, ma non era riuscito a nulla; anzi aveva avuto in risposta delle minacce; e il nome di Caronte era rimasto.

- Avevamo percorsi parecchi oceani e, cosa davvero strana, nessuna tempesta ci era toccata; ma i rumori continuavano a bordo della fregata, e di notte nessun marinaio avrebbe osato scendere solo e senza lume in fondo alla cala. Si sarebbe lasciato frustare a sangue col gatto a nove code piuttosto di calarsi in quella nera voragine.

- Così però non la poteva durare. Il bestemmiatore era ormai giudicato: il vascello dell'olandese dannato doveva aver bisogno di un marinaio, e voi dovete sapere che su quella nave maledetta, destinata a navigare in eterno fra una continua tempesta, non salgono che gli empi e i crudeli. Avevamo lasciate le coste dell'Africa diretti all'America meridionale, al Callao. Appena lasciato il porto, un marinaio cadde da un pennone e si annegò prima che si avesse avuto il tempo di mettere le imbarcazioni in acqua; al secondo giorno un pennone cadeva dall'albero di trinchetto e piombava ai piedi del capitano, che per poco non rimase ucciso; al terzo giorno una procellaria venne a svolazzare tre volte sopra la nostra nave e precisamente sopra la cabina del bestemmiatore.

- La procellaria è l'uccello delle tempeste e porta con sé la sventura. Allora si credeva che fosse l'anima di un marinaio morto, e fra l'equipaggio si sussurrò subito che era quella del disgraziato caduto dall'albero e che veniva ad avvertirci di qualche grave sciagura.

- Un superstizioso terrore aveva invaso tutto l'equipaggio. Un viaggio così male cominciato non doveva finire bene: qualche cosa di grave stava per accadere, lo si sentiva per istinto; ma il capitano non se ne preoccupava, anzi pareva che, come l'olandese maledetto, volesse sfidare il destino e i decreti del Cielo. Bestemmiava più del solito, maltrattava l'equipaggio più dell'usato, beveva e giocava da mane a sera.

- Ma ecco che un giorno, quando ci trovavamo nei pressi del Capo Horn, l'aria si fa buia ed il mare monta. Sulla sconfinata distesa d'acqua calano, come un immenso stormo di corvi, le tenebre, e il vento fischia attraverso l'alberatura in un modo diverso dal solito, poiché quei fischi erano stridenti, e di tratto in tratto pareva che nel fondo degli abissi marini urlassero dei dannati.

- Nella stiva si udivano dei fragori paurosi; era un rotolare di catene, quantunque là catene non ve ne fossero, erano boati profondi, poi gemiti. Voi direte che erano i puntelli dei ponti, i corbetti o il fasciame che scricchiolava. No! Ve lo dice papà Catrame!

Un fremito di paura corse per le membra di tutto l'uditorio a quella solenne affermazione del vecchio marinaio. I mozzi si strinsero attorno ai marinai, e i marinai addosso agli ufficiali. In quel momento si sarebbe udita volare una mosca, tanto era profondo il silenzio che regnava sulla nave, e si sentivano distinti i palpiti di tutti i cuori. Gli occhi di ciascuno erano fissi fissi sul mastro, che pareva assumesse proporzioni gigantesche e che diventasse di momento in momento più bianco, più diafano, e come uno dei paurosi fantasmi che popolavano la cala del Caronte.

- Verso il tramonto, - riprese papà Catrame con voce cupa, - ecco apparire in lontananza il Capo Horn, il temuto promontorio dell'America meridionale. Parve allora che il mare raddoppiasse la sua ira, non altrimenti che quello del Capo di Buona Speranza, quando l'olandese maledetto vendette l'anima al diavolo, per superarlo malgrado la tempesta.

- In cielo guizzavano lampi abbaglianti e il tuono rombava incessantemente, facendo tremare perfino gli alberi della nostra nave; fra le nubi sibilava e strideva il vento, e le onde si accavallavano con una rabbia tale che non vidi più mai dopo d'allora, quantunque abbia affrontato di poi non so quanti uragani.

- L'equipaggio, spaventato, smarrito, pregava; ma il capitano, no imprecava orrendamente contro il Cielo e invocava Satana per aiutarlo a superare il promontorio.

- Ed ecco ad un tratto apparire sulle spumeggianti onde un punto nero che si avvicina a noi con fulminea rapidità: era la procellaria, quella stessa che era venuta a svolazzare tre volte sul ponte, dopo la morte del marinaio.

- Girò ancora tre volte attorno a noi e si fermò sopra il nostro vento dell'albero di mezzana.

- “È l'anima del marinaio!” - esclamarono tutti. - “Sciagura! sciagura!...”

- “Ritorni all'inferno!” - urlò il capitano, e, puntato un fucile, fece fuoco due volte contro l'uccello, ma senza colpirlo, poiché volò via lentamente, fece tre giri ancora attorno al Caronte e sparve fra le onde.

- Ci allontanammo dal capitano, inorriditi, esclamando:

“Sciagura!... sciagura!...”

- Egli ci rispose con un uragano di imprecazioni orribili.

- Il mastro d'equipaggio, un vecchio dalla barba bianca, che credeva come me al ritorno delle anime, scese nella sua cabina, prese la croce e la piantò sulla prua del legno.

- Quell'atto rese più che mai furibondo il bestemmiatore. Slanciatosi giù dal ponte di comando, balzò sul castello di prua e gettò la croce in mare!

- Quasi subito un lampo livido balenò fra le nubi, seguito da un rombo così spaventevole che cademmo tutti tramortiti sul ponte. Quando ci rialzammo la giustizia di Dio era compiuta: l'empio giaceva ai piedi dell'albero maestro senza vita: un fulmine l'aveva ucciso!...

- Allora sulla linea fosca dell'orizzonte vedemmo il mare alzarsi a prodigiosa altezza, mentre sulle alte rocce del Capo Horn lampeggiava; poi apparve fra una luce sanguigna un gran vascello tutto nero, colle vele pure nere sciolte al vento e guidato da un uomo di statura gigantesca. Era il vascello dell'olandese maledetto, che veniva a reclamare l'anima del bestemmiatore!

- Correva con una velocità spaventevole, urtato da tutte le parti da onde mostruose e sulla cima dei suoi alberi brillavano tre fiamme azzurre. Percorse un tratto dell'orizzonte, poi scomparve improvvisamente come se si fosse inabissato.

- Voi mi direte che era una nave qualunque, ingrandita dalla nostra paura, poiché voi non credete al vascello fantasma; ma io l'ho veduto coi miei occhi, e gli occhi di papà Catrame erano buoni in quel tempo! Voi direte che ho creduto di vedere, ma io vi affermo che ho veduto bene e nessuno potrà mai farmi credere il contrario.

- Volete sapere di più? Quando l'indomani gettammo in mare il cadavere del bestemmiatore, lo vedemmo alzarsi tre volte sopra l'acqua; poi le onde se lo presero e lo portarono lontano lontano, verso il luogo ove era scomparso il vascello fantasma.

- Papà Catrame è qui ancora, ma il capitano del Caronte è a bordo dell'olandese, dannato anche lui a navigare eternamente sul mare tempestoso fra il Capo Horn e quello di Buona Speranza!...

Un silenzio glaciale accolse la sinistra chiusa del vecchio marinaio. Nessuno fiatava, all'infuori del capitano, che sorrideva sempre: si sarebbe detto che tutti avevano paura di volgersi per la tema di scorgere il vascello maledetto solcare l'orizzonte. Su tutti i volti si leggeva un superstizioso terrore e i mozzi specialmente erano pallidissimi.

Papà Catrame centellinò un altro bicchiere di Cipro, si mise la bottiglia sotto il braccio, ci augurò la buona notte con tono canzonatorio e discese dal barile per tornare nella cala, quando il nostro capitano, che non aveva cessato di sorridere durante la intera narrazione, gli fe' cenno di arrestarsi:

- È questa la tua storia? - gli chiese con voce beffarda.

- Sì, - rispose il mastro, stupito per quella interrogazione.

- Dunque tu credi all'esistenza del vascello fantasma?

- Se credo!... L'ho veduto coi miei propri occhi!

- O hai creduto di vederlo?

Mastro Catrame lo guardò con certi occhi che pareva volessero dire: “Ma voi impazzite?”

- Catrame, - disse il capitano, diventato serio. - Non ti è mai passato pel capo il dubbio di aver veduto male o di essere stato ingannato da qualche fenomeno?

- Mai, signore, - rispose il mastro, sempre più stupito.

- Dimmi allora: hai mai udito parlare del miraggio, o, se meglio ti piace, della fata morgana?

- Non so cosa volete dire.

- Allora ti spiegherò io. Sul mare, come sugli ampi deserti, specialmente sul Sahara, per esempio, avviene talvolta un fenomeno strano, ma spiegabilissimo.

- Quando gli strati dell'aria, dilatati pel contatto caldo col suolo o con una distesa d'acqua che ha una certa temperatura ed aventi una densità differente, non si mescolano a quelli soprastanti, fanno vedere delle curiosissime illusioni d'ottica: di una semplice roccia ti fanno vedere un'isola verdeggiante, di un canotto un vascello, di un vascello un naviglio mostruoso, di un uomo un gigante, eccetera. Ora cosa pensi tu dell'apparizione del preteso olandese?

- Che gli scienziati hanno inventato delle belle frottole, signore.

- No, Catrame: la frottola ce l'hai data da bere tu, o meglio sei stato corbellato da un semplice miraggio. Il grande vascello che tu hai veduto e che credevi appartenesse all'olandese maledetto, il quale, se non lo sai, non è mai esistito, era una nave qualunque che passava all'orizzonte, ingrandita e trasformata dalla fata morgana. Ah, Catrame, come sei credulo!...

Il mastro lo guardava trasognato. Stette parecchi minuti immobile fissando il capitano, poi si allontanò a lenti passi e sparve pel boccaporto. Benché quella spiegazione scientifica fosse giusta, fu poco persuasiva pel nostro equipaggio, ed io scommetterei che quella notte più d'un marinaio non dormì e che gli uomini di guardia aguzzarono più volte gli occhi per vedere se all'orizzonte appariva il legno dell'olandese maledetto.

(dalla raccolta "Le novelle marinaresche di mastro Catrame", di Emilio Salgari, 1894)


{loadnavigation}